Friday, November 20, 2009

Qualunque a Venezia.


Mura canali ponti assorbono la poca luce piuttosto che riverberarla. La calle, stretta e lunga, spinge verso i passanti incontro. È la città stessa che parla in vece della sua architettura. E la sua fioca illuminazione dei lunghi pomeriggi autunnali, è la tenebra dello spirito. In essa mi perdo e trovo per rincuorarmi solo l'effetto d'ombra che è in me ora, e che riabilita invece, misteriosamente, per un attimo una luce interna. Con l'oscurità, di fronte alle persone a cui sono improvvisato, quelle che devo schivare per passare in un sottoportego, ritorna una mia faccenda che dir bene non so. Il lampione, ritto tra canale e terra, nella sua fierezza lascia rischiarato un tenue orizzonte. Mi inoltro, spostandomi per i più futili motivi poi, nell'ignoto che lascia appena intravedere. I volti delle persone diventano leggeri e io subito li idealizzo, se il mio stato d'animo è allegro o propende all'estro; subito li abbandono con disprezzo non appena, invece, ho buttato in me un poco di quella zavorra lenta che neanche un faro potrebbe rischiarare, abbandonato come sono in acque di nessuno.
La volontà di ricevere luce è in fondo la stessa che mi domanda chiarezza rigore e ambizione, e che da sotto io trasformo in oscurità sregolatezza e involuzione. Mi rendo conto che Venezia è una città mia non tanto dal momento in cui vedo una corrispondenza tra la sua oscurità, tra l'offuscamento e la perversione dell'ombra che Essa procura sul volto dei suoi passanti e il mio spirito ruminante, ma da quello in cui mi dileguo come un cittadino qualunque, indegno ammutinatore di istanze mai sopite – me che continuo a fare finta, come un suo passeggero casuale, che in fondo camminare nelle strettoie conduce, come mi piace pensare e come in fondo la Città mi riserva sempre, a campielli di storia, di socialità, e di appagamento.

Monday, November 09, 2009

La neuroscienza come stregoneria del pensiero


Se le neuroscienze raccolgono e si impongono in meditazioni secolari, come la separazione tra mente e corpo, ciò deriva dalle risposte che riescono a fornire ad annose domande. In questo modo possono giustamente procacciarsi tanto delle fette sempre più ingenti dei fondi alla ricerca, quanto le credenziali del mercato. Il loro avvenire è già tracciato, e sarà brillante.

Ma a quale tipo di domande le neuroscienze rispondono? Ciò è insidioso in quanto ci apre alla genealogia di questa disciplina, come domanda sul valore e sul senso di essa.

Esse constatano empiricamente che nel cervello vi siano innumerevoli sinapsi (e che vi sono più possibilità di connessioni tra esse che atomi nell'universo, com'è noto); scoprona cosa accade quando si assumono droghe, che la sensazione di euforia di un momento è data dalla dopamina. Pur tuttavia, è facile spiegare che tali studi non ci dicono nulla riguardo al funzionamento di ciò che è nel possibile; la disciplina, pur fornendo modelli di pensiero fecondi, non ci invita a modellare i nostri confini interiori nella comprensione razionale, nello stupore, nella narcotizzazione, nell'euforia e nell'attrazione. Come ogni scienza, essa ci salva dalla stregoneria, e cioè dall'approccio magico ai fenomeni naturali. Meglio ancora, bisognerebbe aggiungere, tali studi occultano le esperienze e tendono, con la postura naturalistica, a praticare una stregoneria del pensiero. La donna desiderata è meno la causa cascata di feromoni, che ciò che il peggior misogino della terra rileva in una conversazione al bar con dei negletti di periferia. Ma il problema, si dirà, non è tanto delle neuroscienze quanto della reiscrizione di esse della vita umana. In fondo, appunto, le neuroscienze trattano solo di sinapsi, di ricezioni di feromoni, ecc. La stregoneria, nella sua aura mitica, è un prodotto reazionario per la società e per l'uomo, così come la neuroscienza.
Eppure la neuroscienza non può assumere una funzione ancillare del pensiero: essa pretende già derivare precedentemente la realtà dalla visione sperimentale, che avrebbe invece dovuto essere messa sotto scacco quando in gioco vi è l'orizzonte del proprio comprendersi tramite la modificazione esistenziale di sé.

Tuesday, October 13, 2009

Dal peccato al totem.


Oggi ho un totem a casa. Non è fatto di pelli di animali appaiati su un grosso bastone; non mi guarda con gli occhi eccessivamente appiattiti e sproporzionati di una maschera africana. È un oggetto molto comune, del valore di un decimo del mio stipendio, che, per essere stato sottratto furtivamente a qualcuno, e per essere il centro di convergenza del mio senso di colpa, è ora poggiato in altezza su una poltrona di casa mia, sulla destra del mio televisore, e esattamente di fronte al divano su cui mangio. Convogliando il mio senso di colpa, la sporcizia del mio stato d'animo d'ora, la ritrovo, attraverso le sue forme graziose ed equilibrate, l'ergonomia morbida della sua silouhette, e i colori sgargianti, come un feticcio, un assurdo oggetto spostato dal suo contesto e ritto in piedi, nuovo interlocutore dei miei pomeriggi persi, nuovo simbolo del peccato. Era molto che non pensavo al peccato; lo confinavo a una linea precedente e contemporanea a Dio; ho potuto, cosi', seppellirla nel candore delle mie passeggiate fuori il perimetro parrocchiale, negli sguardi all'altezza asimmettrica della cattedrale di Strasburgo, nei pensieri di altri – artisti, timorosi di Dio. Ma quando si pecca, Dio non c'entra. Il timore di Dio neanche. Il timore nasce dall'aver infranto un ordine, reale più che morale. Il feticcio è qui a dirmi che non ci dovrebbe essere, o che io non dovrei essere qui con lui.

I segnali si facevano più forti paradossalmente, quando ho inforcato la bicicletta e ho conquistato terreno – quando non potevo più essere scoperto. La paura di essere colto di improvviso ha lasciato il posto a una sensazione di persecuzione metafisica. Sono entrato in una sorta di ermeneutica del cattivo: ciò che mi capitava di buono (un semaforo verde) era un motivo per accellerare la mia marcia verso casa, verso la tana; ciò che sembrava non andare bene, era un segno di castigo. La potrei pagare più cara. Il moscone nero pece che mi aspettava a casa sembrava uscito da un acquaforte spaventosa di Goya; la rottura di una lampidina qualche minuto dopo faceva presagire che da quel momento in poi la colpa trascendeva il momento del fatto e l'ordine costituito.

Cosi', ho posto l'oggetto come feticcio. Mi sono messo dei bei vestiti e mi sono messo a mangiare. Tra poco scriverò di questa esperienza del peccato che ritorna dopo molti anni di assenza. Certo, ho peccato anche in questi anni, ma l'ho fatto solo moralmente. Ho lasciato gli oggetti ai loro proprietari; ho rubato persone, stati affettivi, investimenti emotivi; ma l'immeritato non si distingue appunto dal latrocinio che per una reversitibilità e una simmetria nella colpa? L'oggetto, invece, è sempre feticcio. Possedere un oggetto, rinchiudere un animale selvatico in gabbia, o rendere oggetto una persona come l'abduzione, è sempre più difficile perché esso è sempre l'icona di se stessi.

A volte sento questo quando vedo una persona che ho forgiato un po' a mio modo; ma anche allora, vedo il mostro che è in me ma so che non sono tutto io, che di fatto l'abnorme che si è estrinsecato ha comunque voluto un'altra coscienza. E allora non posso farlo feticcio, e il feticcio non si può trasformare in totem. Non posso fare si' che esso i chiami, perché le persone rispondono sempre e ti stupiscono sempre, il totem mi ricorda la mia stasi e nel frattempo la iconizza rigettandomi nel peccato immemoriale che infesterà la mia giornata, prima che domani passi, restituendolo o meno.


Sunday, October 04, 2009

Il sistema e la questione del rifiuto.


“Che non si possa fare tutto” significa nella costruzione di un sistema teoretico (non diversamente dunque a quanto succede nella vita di tutti i giorni – bastano pochi ragguagli, alcuni termini cambiati: “die Ganzes” di cui parla Schelling non dev'essere però appannaggio solo della filosofia, ma è un'esperienza che deve sempre accadere): non si possono comprendere dei concetti e renderli chiari allo stesso tempo; non solo perché ci sono dei concetti operativi, e come dice Fink, è il medesimo di quanto accade nella s-velatezza del vero. Il fatto forse più essenziale è che non si può riprendere tutto quanto è corso nella tradizione che è poi la carne viva del significato delle parole. Non si può pretendere rispondere a tutte le questioni in un sistema, perché il sistema deve, in quanto tale, necessariamente rifondare da zero e dunque certi concetti o filosofemi devono semplicemente svanire. Se si riflette sulla rifiuto (o sulla resistenza), per esempio, si deve forse considerare come inutile le sforzo di spiegare come essa può essere costruttiva. Le coppie di concetti opposti devono saltare come deve farlo l'antinomia stessa. Parlare di costruzione dovrebbe equivalere a rispiegare essenzialmente cosa è “costruzione”. Questo è per l'appunto il compito di un sistema, che non è solo un aggregato organizzato di concetti in grado di rendere conto del tutto (Ganzes) del reale, ma la riformulazione del reale su base sistematiche. Dunque il sistema deve rispiegarsi come tale rispetto alla sua riformulazione del reale ex novo. Si può dunque concepire che, riscrivendo il concetto di rifiuto, si possa fare a meno di considerare l'elemento propositivo o costruttivo del reale. Questo è ciò che certi filosofi tentano e sono spesso accusati di violenza o di non rispondere a domande concrete.

In realtà non c'è nulla di concreto al di là del sistema (idealisticamente inteso), perché il sistema stesso svela la concretezza come un'illusione se pensata fuori dal concetto di totalità creata. La costruzione di un mondo migliore non ha dunque senso se, forse, il concetto di resistenza o rifiuto viene in aiuto per una riformulazione del reale. Voler costruire qualcosa, dal punto di vista del sistema, non significherebbe altro che voler esser fuori dal sistema e dunque auto-contraddirsi.

Ma la resistenza costruisce? Interrogando i concetti, può un sistema negare l'ovvio (un progetto politico, una casa che si sta ultimando dopo mesi di lavori...). Pensiamo di no, pensiamo che si il sistema si completa, non ha bisogno di spiegare il concetto di costruzione. Ma deve aver posto all'interno di esso il possibile per spiegare l'impossibilità di una costruzione in senso corrente.
Poi, va da sé, il sistema è anch'esso una pratica umana (come ogni costrutto umano); deve rendere conto a se stesso, ma non può farlo che rispetto a questo non-senso che esso esclude ma che ritornerà necessariamente ad acciuffarlo appena il sistema dovrà confrontarsi, nella mente dell'autore, del lettore ma anche nella vita propria delle parole, a ciò che è il suo riferimento costante, e cioè la tradizione del vocabolario e la stolida realtà cieca la quale ogni giorno ci arreda la nostra mediocrità del bisogno di esteriorità e spossa il nostro tentativo di assoluta completezza ributtandoci nell'inferno delle nostre ricerche di senso.
Due dimostrazioni eteroclite su tutte:
- Idioterne di Lars Von Trier, in cui il gioco a fare i cretini, gli handicappati, si trasforma alla fine in qualcosa in cui credere, in cui fare fede, atto di professione al momento opportuno: il rifiuto si trasforma in etica che tuttavia non esprime altro che ancora il rifiuto stesso a costruire, anche quando si è soli di fronte a tutti e gli altri hanno abbandonato;
- Le notti bianche di Fëdor Dostoëvskij, in cui il sognatore adolescente, non ha alcun bisogno di rapportarsi realmente alla ragazza che ha di fronte e che è innamorata di un altro. Egli ne diventa anzi, peggio, il confidente, la spalla, la vera schöne Seele schilleriana che resta parossisticamente bella anima oltre più che anima bella. La sua confessione d'amore è in realtà poco più che una boutade, non è un reale confronto con lei o un gesto d'amore, ma il modo per liberarsene e ritornare mestamente in una vita trasognata nella tristezza propria a colui che pur nell'incapacità di amare, nel bisogno di farlo e nella voglia di compierlo, preferisce un "malgrado" all'abisso del rapporto radicalmente esterno. Il letto e la finestra sono cosi' gli strumenti per darsi, come i poli dialettici in un sistema, la comprensione calcolata delle difficoltà di rimanere in sé - ma tuttavia, anche senza compensazione, una via di fuga dal sistema stesso restando ostinatamente in casa.

Wednesday, September 09, 2009

Della vergogna.

Da un certo frattempo, mi sto facendo un'idea degli uomini che mi sembra nient'affatto vana; anzi, una delle più veritiere che mi sia capitata di attribuire loro. Non tratto più di questa o quest'altra caratteristica di ciò che di più certo mi sembra si possa attribuire alla nostra specie, che sia bipede, che disponda di logos e di mani prensili. Ciò che penso è che si possa afferrare ogni uomo nella sua irriducibile singolarità e allo stesso tempo nella più certa verità, proprio dal lato che sembra meno visibile, quello meno pubblico, quello più vergognoso in realtà.


Il gioco (perché diventa facilmente ludico, sia in quanto è un passatempo sia in quanto stupisca dal ritornare, come una trottola, sempre uguale nonostante le innumerevoli diversità e difformità) è in fondo semplice: basta pensare che dietro una tratto palese di questa persona, vi è un realtà un'occultazione volontaria di un tratto diametralmente opposto. Perché temere allora femmes fatales, il nostro collega che sembra spietato, se si nasconde in realtà in loro le più trine e flebili figure dell'umano? Non vi sono garanzie di riuscite né prove a priori (non empiriche) che possano dimostrarlo. E' certo un gioco, ma aiuta a vivere perché, nella duplicità della personalità di chi ci sta di fronte, c'è sempre un risvolto di fragilità che rende la nostra più sopportabile. E forse, banalmente (perché il discorso sui caratteri è banale, ma la banalità è spesso questione di vita e di morte, di sopravvivere o sopprimersi), è per questo che l'astrologia può sempre azzeccarci.

Ero nella lettura rapida di un testo minore di un autore minore che commentava un filosofo minore. Non farò nomi perché sono già di dominio pubblico, ma basterà dire che questo filosofo non è altro che un lettore noioso (la cui noia non sembra pero', purtroppo, addirsi al suo vezzo di scrivere libri su libri) di un altro più grande e dietro la cui ombra, seppur non gigantesca, egli si sofferma a decantarne la frescura. Questo dovrebbe già bastare per non dare neanche lo spunto al gioco. Pero' si puo' notare che qui il gioco diviene paradossale, come per ogni commedia umana che tenda al tragico o al grottesco - che qui collimano. Ebbene, in questo testo non si cita neanche l'autore principale, che è ripreso praticamente parola per parola. Il secondario, dal vivo, oralmente, è un uomo sempre impegnato e che grida "al lavoro" non nascondendo di certo pero' i suoi debiti intellettuali. Quando scrive, dice, vuole riprendere “à ses frais”, a suo modo, quello che dice quest'autore, e non altro. Vuole “relever le défi”, raccogliere la sfida, del suo pensiero! Purtroppo per noi che compiamo questo gioco, in cui tutto è il contrario di tutto solo perché tutto il contrario è sempre da nascondere, volente o nolente. E' la vergogna del conscio e dell'inconscio, sia da una parte sia dall'altra, e so che se scrivo qualcosa di simile, ho un lato ben peggiore che posso tenere in sospeso su un ramo, magari di cipresso.

Sunday, August 30, 2009

Fuori dalla trama, a Cuba


Volgendo la mente al declino del volto di questo spazzino conosciuto troppo in fretta, oggi, in cui dovevo purificare la mia anima (e ci volle un rito spiritico), rilasciando lo sguardo già perduto in un paesaggio tropicale tumultuoso, rinasco a me stesso, immemore del progresso.

Thursday, July 30, 2009

Limiti tra memoria e oggettività: "Valzer con Bashir" e la non-indifferenza


Dopo una gelosa inappetenza alla scrittura, o al pensiero in generale, Valzer con Bashir mi dà la forza di sollevare il monitor del laptop, e riscoprire, come a un disseppellimento di un antenato, che il caro defunto è un cumulo di polvere tra le ossa come tra i tasti.

Ad ogni modo: se si apre la bara, si dà un'occhiata, e si guadagna anche del posto nella cappella di famiglia: questa polvere troverà un posto più adeguato nell'ossario, c'è dello spazio libero per nuovi morti più voluminosi - i cadaveri freschi occupano più spazio. Scrivendo riesco a mettere da parte il lato di me che è più impellente ora, lo "archivio", gli offro uno spazio più ridotto, ma non per questo angusto: è in fondo la mia vita ad essere una lotta continua per una ricerca di spazio, una prova generale per conservare ossa e incamerare cadaverizzazioni di me. Così, poco resta per la menzogna che mi canzona da un fuori che non conosco.

Valzer con Bashir mi ha spinto di fronte al blank della pagina perché in fondo racchiude tutto ciò che ho da dire al mondo, pur partendo da un'esperienza privata del regista e da un momento storico definito (e pur parlando solo di quello). Il regista racconta attraverso disegni animati il suo tentativo di ricostruire il ricordo del giorno del massacro di Sabra e Shatila durante la guerra israeliana in Libano (massacro di civili, genocidio palestinese effettuato dai Falangisti cristiani alleati dell'esercito ebreo). La sovrapposizione con la Shoah sarà il senso del tentativo di rimozione della sua coscienza, attraverso il ricordo di lui lì, di notte a schiarire (inconsapevolmente) il lavoro degli aguzzini con dei razzi al fosforo. La memoria e l'oblio malgrado se stessi, la presa in conto di un'intera sua esistenza nella ricostruzione del senso del sé (non un sé inglobandosi tutto, ma un sé la cui narrazione su di sé sia concentrata, in quest'atto stesso, con lo sviluppo sensato degli eventi della propria vita), le ripercussioni che essa ha nel mondo – un mondo che, pur non dipendendo unicamente da tale “sé” (anzi in modo puramente contingente, non avendo egli consapevolezza di ciò che accadde la notte di Sabra e Shatila), costringe quest'ultimo ad assumere una colpa per una collaborazione, e ciò in virtù del ricordo cancellato, tale “amnesia dissociativa”, segno di una volontà inconscia di arrestare di colui che schiarì, come altri soldati, la notte agli aguzzini, con sé.

La fenomenologia, ancorata sempre alle esperienze più grezze e al primato dell'evidenza, dell'intuizione o del significato, non può dirci molto su tale complessa vicenda esistenziale (“supplementata” pure dalla messa a punto cinematografica, dalla terapia in qualche modo che questo film fu per il regista, a partire dai disegni animati stessi). Eppure di questa vicenda ne va molto di più che del senso dell'essere in generale o del senso della costituzione di un qualsiasi oggetto, visto che ne va del senso del sé e del senso del dare senso al passato in vista non solo di un futuro, ma del presente (e del farsi stesso della terapia come filmmaking). La soluzione che gli dà un amico è questa: "smettila di chiederlo a me e ai tuoi amici, ai commilitoni che erano con te 20 anni fa (ché anch'essi hanno rimosso), e vai a chiedere alla gente: più testimonianze trovi, più ti avvicini alla verità” (in un inattuale privilegio della quantità nell'autosviluppo psichico).
È necessario a questo momento incontrare i superstiti, o coloro che hanno vissuto la stessa notte da angolazioni differenti.
Se la scena finale che collega le immagini del suo ricordo (e dunque in animazione come tutto il film) con quelle documentaristiche filmate, lo è nel senso di una capacità di accedere a quelle immagini "vere" attraverso un percorso fino a quel punto "ricostruito" o "fittivo": è dare all'oggettivo un carico di emotività. Per una volta, di fronte alla bruta realtà documentata, non si può restare chiusi in un relativismo e in un'ermeneutica dell'oggettualità. Certo, il fatto non è mai bruto e grezzo; è sempre a porsi dopo un evento di senso. Ma l'occultazione ha i suoi limiti. Il suo ricordo volontario di quella notte si arrestava infatti quando incrociava la fiumane di donne profughe.
Con un travelling verso il protagonista, si scorgono questa volta le immagini di quelle anziane donne che accorrono verso la camera, disperate per aver perso tutto. E poi, come se non bastasse, inquadratura sui cadaveri, di giovani, donne, e infine un bambino. Immagini che richiederebbero anche pudore, ma che qui acquistano proprio quella necessità di essere viste attraverso un filmato terzo (e non attraverso i ricordi o l'inchiesta, che sono in cartone animato), anche se si tratta di cadaveri, ché non sarebbe un'offesa a loro: quei cadaveri è ciò che pure vi fu, che forse vide il regista stesso, ma che non può ricordare). E anche se non furono quelle esattamente le immagini che vide, è come se lo furono, visto che in quella notte ciò accadde. Le informazioni che ci giungono sono a volte più importanti del vissuto in prima persona, sono rielaborate al punto da offuscare qualunque ricordo, sovrapporsi ad esso e soprattutto “sensare” il ricordo (al punto da ricoprirlo). Chiamarle “Informazione” è dunque offensivo, visto che un'informazione sembra essere un non-necessario, una risposta ad una richiesta accessoria. Sono ciò che effettivamente furono, forse meglio di quanto noi possiamo dire e di quanto noi ricordammo. Sono l'arresto della macchina del ricordo e l'inizio del vero che deve essere moralmente preso come tale. Furono effettivamente la possibilità per noi in quel momento, ed è il compito quello di renderle nel loro esser vere immagini filmiche allorché il resto, non solo i ricordi (che possono aggiungere dettagli e modificarsi a piacimento – senza nostra volontà) ma anche la volontà stessa di ricostruirli possono entrambi essere un possibile falso. Il preteso oggettivo, dopo un percorso esistenziale del ricordo, non è indifferente, non è materia morta documentante morti.

Saturday, May 02, 2009

Il rimpianto dell'irrimediabile.

L'uomo invidia l'animale, che subito dimentica [..] l'animale vive in modo non storico, poiché si risolve nel presente [..] l'uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte. Per ogni agire ci vuole oblìo: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non solo luce, ma anche oscurità. La serenità, la buona coscienza, la lieta azione la fiducia nel futuro dipendono [..] dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto.
(F. Nietzsche, Considerazioni inattuali)


L'irrimediabile accade senza particolari riflessioni. Quando esso accade, non resta che associarlo ad una specie di destino, al retrogusto d'una caducità che dà torpore, come in questo pomeriggio, in cui ripenso ai momenti non trascorsi a quelli lasciati andare via, a quelli fuggiti d'un tratto, soppiantati dalle circostanze, passaggi di nuvole al bivio dell'eternità che pure l'attimo sembra avere. Il ricordo e l'immaginazione aiutano l'esistenza a sorreggersi, ma questa è già greve di rimpianto. Ciò che in realtà nuoce di più al ricordo e alla speranza sono i possibili non compiuti, la storia perduta nel suo non essere stata possibile. Pure una marcia trionfale verso la felicità, fosse anche passeggera, si farà ormai senza ciò che è stato.

Ricordo a malapena di certe scelte in cui il "doveva andare così" si impose con più forza della mia volontà. Mi sovviene dunque più un desiderio triste di qualcosa impossibile in quanto è già passato, che l'accadimento. Mi ricordo della sua delicata mancanza di personalità. Mi ricordo della timidezza cui una malizia nascosta sembrava esserne il contrappunto, una grazia del caruccio, di ciò che domanda appunto una vis e al contempo un riparo, effimero ma vero.
Ma vili scelte non volute ma dovute, andate, effettuate macchinalmente o perché vi era una scadenza... ecco, sono compiute, la vita continua senza quel sé rimasto in stazione per l'eternità, e il mio mondo pullula ormai di questi sé. Appena mi giro, ecco un nuovo dolore, nel mondo cristallizzato in quel luogo, parte ormai del paesaggio dei luoghi che già conosco, mappato in un atlante personalissimo.

Monday, April 20, 2009

Innamoramento e amore, di Francesco Alberoni.

Ultimamente, per bisogno di essere contrariato, esco dal guscio dei capolavori disseminati nella storia delle lettere, o di quello dell'ontologia fondamentale, per gettarmi a capofitto in libri contemporanei, che termino di leggere nel giro di poco tempo (contro le calende greche dei capolavori). Cosi, mentre Aristotele, Flaubert, Leibniz e Joyce restano ad accumulare polvere maestosa spostati tra comodino, scrivania e scaffale, col segnalibro fisso verso metà – finisco per leggere saggi del tipo di Innamoramento e amore di Francesco Alberoni.
Lo faccio innanzitutto per capire come si fanno a mantenere simili posizioni leggere, e scriverci pure. L'atto di scrittura penso debba sempre evitare il banale, il “si sa”, eccetto nella pubblicistica o nella politica (la denuncia politica e l'inchiesta dovrebbero non ricadere in questo campo). La scrittura non deve mai accontentarsi di se stessa, non deve mai limitarsi ad esporre cose già dette o di buon senso, ma cercare di centellinare il vero che c'è in esso attraverso un inedito ad esser immanente.  La letteratura non dovrebbe apprendere nulla, se per apprendere si considera la lezione ex cathedra, l'inculcare, la dissimmetria. E come scrivere se non si è convinti di qualcosa, e perché farlo altrimenti? Come fare perché il corso della penna non si arresti su particolari irrilevanti, aneddoti, dettagli biografici, amenità? L'anodino è il nemico della scrittura, sottrazione del tempo al lettore e mancata auto-analisi dello scrittore.

“l'innamoramento, invece, pur essendo un movimento collettivo, si costituisce tra due persone sole; il suo orizzonte di appartenenza, qualunque valore universale possa sprigionare, è vincolato al fatto di essere completo con due sole persone”

Il libro di Alberoni, datato 1979 ma che compare quest'anno in edizione aggiornata, parte da una posizione interessante: l'innamoramento è lo stato nascente di un movimento collettivo a due; l'amore è la prosecuzione dell'innamoramento sul piano dell'istituzionalizzazione di tale rapporto, il combattere le difficoltà a due. Come si sa, dopo anni di diffamazione del concetto di "amore" (durante il '68), nonché dopo la psicoanalisi, che riduceva l'innamoramento ad una pulsione sessuale e l'amore a un sentimento di repressione della sessualità stessa, Alberoni si propone di esaminarlo come semplice movimento collettivo. Questo originale punto di vista ha fatto sì che continuassi nella lettura; la mia scarsa conoscenza nel campo dei “movimenti collettivi” e della sociologia, oltreché la pretesa tabula rasa delle posizioni idealiste-romantiche, scavalcando il suolo comune e le definizioni ideologizzanti dell'amore veicolate da Hollywood, mi hanno permesso di continuare nella lettura. Se non vi è una mossa di base in sé originale, nessun testo vale la lettura.
L'innamoramento fa parte del campo dello straordinario. Seguendo una divisione intuitiva, Alberoni lo distingue dall'infatuazione erotica: l'innamoramento comporta una reiscrizione dell'amante, che non è abbandono nell'amato, ma piuttosto costruzione di un nuovo orizzonte semantico con l'amato. L'amore non può quindi essere che monogamo. Non può avere più persone come oggetto, come non si possono seguire più capi allo stesso momento (tale è l'accoppiamento di Alberoni: amore-rivoluzione). Senza quest'atto di perdizione-acquisto del senso complessivo della vita dell'amante (gli esempi sono La Divina Commedia, il Canzoniere, I Dolori di Werther, Abelardo e Eloisa), non vi è alcuna speranza di considerarsi innamorati.

“Entrambi gli individui si sentono attraversati da forze straordinarie, sentono di poter finalmente realizzare i loro desideri più profondi, il mondo diventa luminoso, tutto appare possibile, l'altra persona ci appare come la strada, l'unica strada per raggiungere il luogo in cui il dovere coincide con il piacere”

In Alberoni, come nella cultura corrente, l'innamoramento è visto come il “veramente” di ogni rapporto umano, il massimo attingibile, e ciò che ci è di più proprio, che ci distingue dagli animali. A buon diritto dunque non solo, come nella psicoanalisi, l'uomo si distingue dagli animali per la pulsione sessuale costante, quanto per il volere che questa sessualità sia straordinaria. Nei primi due capitoli Alberoni pensa che ogni uomo voglia questa sessualità straordinaria, che è di fatto quella che si ha solo quando si è innamorati (sicuramente la sessualità è più nella testa che nei genitali, ma perché solo con l'innamoramento si ha la sessualità straordinaria?). Come si vedrà, il lessico si basa su pretese evidenze empiriche, che invece possono non risultare affatto chiare (ecco perché o il pensiero è fondamentale e, direi, “concreto”, o non è). Questo chiude il libro nel cerchio di lettori disposti ad ammettere i postulati di partenza: l'innamoramento è meglio, l'innamoramento è inevitabilmente il massimo raggiungibile da un uomo nel movimento collettivo con la donna.
Interessante notare come nel saggio si crei la seguente sfumatura: che ci voglia una predisposizione all'amore: l'amore non può manifestarsi sempre, e se una persona è a suo agio con la vita, l'innamoramento difficilmente riuscirà a subentrare. Più facile dunque quando si necessita una messa in gioco di sé, o tra due persone che lo vogliono. Romeo e Giulietta covavano interiormente il loro sentimento: tutte le condizioni esterne erano loro contrarie. Tramite questo atto stabilivano un mondo diverso, un mondo che apparteneva loro.
Il passaggio all'amore si fa con il subentrare della durata, del progetto, della sincerità, del volere combattere le difficoltà, “le onde del mare”, a due, come si lotta insieme in un qualunque altro movimento collettivo, pena lo smembramento.
L'amore conserva la sua struttura identica anche per un figlio, per una persona che non ci ama, o che è già morta (come Beatrice per Dante). L'importante è l'elevazione della sensibilità... Alberoni dice che l'amore apre i sentimenti, eleva alla poesia anche una persona che è sprovvista di particolari doti di lettura e scrittura.

Due ultime "chicche" d'un certo rilievo:
l'amore sfuggente è quello più interessante? Sì, come innamoramento, ma non come amore, che richiede pianificazione, progetto.
Quando si pensa ad altri partner durante un rapporto sessuale con l'amato, significa questo che non si tratta di amore? Assolutamente no: anzi, lo si fa per esorcizzarli e per far si' che l'amato solo si trovi lì con noi, alla fine, unico. Lo si fa per rassicurarsi sull'amato, per trasferir su lui il senso dei nostri ex, e i nostri pensieri.
Ma allora, nel caso si faccia l'amore con una persona di cui non ci importa nulla, a si pensa alla persona che ci piace di più, cosa accade?
A questa, e ad altre domande, il breve saggio di Alberoni non può rispondere. 180 pagine, troppo “ariose". Soprattutto, l'argomentazione è quella dei “reculons”, tipica della retorica dell'amore: si sposta sempre l'asse dell'amore, il vero è sempre quello più radicale. In tal modo, tuttavia, il fenomeno dell'amore non accade sempre, o anche: non accade. La psicoanalisi e la filosofia volevano infatti, smontando l'amore come privilegio, soprattutto uno slancio-verso: da qui la pulsione, il desiderio, o anche la conoscenza (Platone). L'amore di cui parla Alberoni non sarebbe che un sentimento particolare d'un "voler bene" più diffuso e generico. E' piuttosto, come nel senso comune così propria del giudicare altrui, sempre pronto a smontare i sentimenti e le persone, la gerarchizzazione a permettere, a livello ideologico, di spostare sempre al di là l'amore, dando condizioni che è difficile mettere alla prova in concreto, per non dire impossibile. In fondo, se non andava, non era amore. Come dire: se non lo si può riconoscere, non è amore. L'adagio è quello solito: si deve essere innamorati dell'amore per innamorarsi. Le possibilità del movimento collettivo a due sono dunque bloccate in maniera reazionaria o, al peggio, naturalizzate a un sentimento surplombant il movimento collettivo stesso nonché i soggetti agenti.

Sunday, April 19, 2009

L'evento tra incontri mondani e ontologia.

L'evento apre lo spazio del possibile. Deleuze vedeva appunto nel '68 questa voyance, la possibilità del vedere, del vedere altrimenti. La filosofia continentale contemporanea, nutrita di Kierkegaard, sia dal lato heideggero-derridiano sia da quello lacanio-deleuziano ha sempre più trasformato il possibile in evento, che indica innanzitutto Öffnung, béance, apertura. Prima di essere progetto di un futuro, è una stasi del possibile, il momento in cui il possibile si diffonde come possibile e non come calcolo del possibile. Lo scegliere è ontologicamente inutile nell'accadere dell'evento.

Tanto si è detto, e in modo interessante, sull'evento, e tanto resta però da dire. Al confronto, queste parole sembrano scorrere via come acqua piovana.
Eppure, l'evento non può garantire il suo carattere evenemenziale senza una copertura subitanea. Senza un ritorno di ciò che è la celerità nel suo darsi, l'appesantimento del suo chiudersi in un non-evento, una possibilità di essere non-evenemenziale. L'evento richiede una sua maîtrise, come richiede una expertise ma non nel suo accadere. L'evento è sempre più docile, a posteriori, di quando lo si vive: la sua elaborazione è postuma e gli è pure dovuta. L'evento deve ricadere, anche solo per volontà di perpetuarsi come e nel possibile, nel ritorno della coscienza.
Vale dunque la pena soffermarci sull'evento? Vale la pena discutere di ciò che è evenemenziale? E' possibile farlo tornandoci sopra senza però sopraffarlo del suo carattere evenemenziale? Non avrebbe forse l'evento una sua temporalità (o forse solo un suo “tempo”, una sua durata), una sua teleologia, che lo porta a prendersi beffe dell'arrivante, colui che sopraggiunge nell'evento (visto che nell'evento non c'è soggetto)?

Non parliamo qui della teoria della verità di Heidegger, l'a-letheia che è anche un Verbergen. Se la verità si copre in Heidegger, è in base all'orizzonte finito dell'essere, che non può darsi completamente, ma secondo un processo di s-velamento, e il cui processo dipende dall'essere stesso.
L'evento che ci interessa è invece il non-evento della ripresa dell'evento, di quell'altro evento, se si vuole, di scoscienza dell'evento. Qualcosa accade; qualcosa mi chiama; sento qualcosa nella mia carne (tre lessici diversi per dire l'evento), l'evento resta il tempo necessario perché io lo riconosca.
Come si vede, contestiamo il carattere straordinario dell'evento.Un evento ordinario, che tuttavia sembrerebbe allora un puro accadimento.

Non essendoci criterio per stabilire cos'è l'evento e cos'è l'accadimento dal punto di vista dell'evento, dato che l'evento appena si verifica non è categorizzabile come evento ma solo (e forse) successivamente situandosi appunto nei possibili che esso ha aperto, l'evento opera, a ritroso, di nascosto, anche quando l'evento non c'è... c'è un continuum della nostra vita, un flusso, che non si arresta davanti all'evento.

“Evento” designa oggi, e così anche nelle altre lingue che conosco, quei “meeting” di persone, tipo fiere ecc., ed è circoscritto a questo. Questo significa anzitutto la sconsiderazione del mondo moderno per la filosofia. Se solo si sapesse della letteratura sull'evento, l'associazione di questo termine alla mondanità, al commercio e al deal, chiederebbe per lo meno una certa precauzione.
"Organizzare l'evento", "managing l'evento", è al meglio un ossimoro, al peggio una contraddizione.
Si può provare a effettuare un legame tra questi due concetti, quello della preparazione e del risultato dell'evento e quello dell'evento stesso, ontologicamente compreso, oppure sono due ambiti vicini solo nominalmente, e in realtà completamente separati nella loro propria venuta?

Sebbene gli 'eventi' non abbiano nulla dell'evento, nulla dell'apertura dei possibili, visto che esso è illimitato per principio, invece gli eventi – già plurale – sono limitati a ciò che è stato fatto, concertato, propinato, appioppato al pubblico, limitato a ciò che è esposto. L'evento mondano è preparato, "serve-a".
E, l'evento ontologico, non dev'essere anche ricucito dalle trame del senso? Non dev'essere anch'esso preparato come evento, per non confondersi con la "sorpresa"?

L'evento lo necessita, necessita una copertura riluttante all'evento stesso: necessita ontologicamente un meeting postumo adibita a realizzare il suo possibile, al fine appunto di conservarlo in un carattere diverso da questa fiera stessa, un carattere perduto e da recuperare al di fuori da questa fiera imbottonata e dai suoi presunti risultati mondani, affaristici o perfino culturali; necessita un inappropriabile di quest'aria di sviluppo imprevedibile che corre negli splendidi saloni e non negli spiriti disincentivati dei faiseurs di concetti.

Saturday, April 18, 2009

Fratellanza e cadaveri a partire da 6 feet under

Il senso della famiglia mi pare legato al sentimento della caducità di sé - se per famiglia intendiamo il permanere nel tendere una mano al prossimo del mio passato in maniera responsabilmente (to take over), e, in questo "prendere oltre", perseverare tale unione nel presente.
Esso è innanzitutto un segno di non belligeranza: si tende la mano per non ferire.
“Tendere la mano” è qui generico per dire: non voglio impossessarmi di voi, né voglio che voi lo facciate di me. Ma tendere la mano non è uno spazio neutro: non c'è alcuno spazio che è diviso, c'è l'immediatezza di un contatto immediatamente stabilito, un contatto che non può trovare nessun luogo se non il contatto stesso, cioè la dichiarazione tacita d'intenti.
L'altro è mortale, è ledibile, ma io non voglio che egli divenga così. La fratellanza è il contrario della forza, ma anche e soprattutto dell'obbligo, visto che essa non obbliga a nulla che non sia già un tenersi in contatto.
Al massimo, è questa genericità del contatto a chiuderla a un orizzonte totalmente “liberato”. Che non ci sia nient'altro che la fratellanza, che questo momento di fratellanza (che poi è gemellato con la pietà e la compassione, il darsi pena per l'esistente in quanto tale), accade senza però ricambiarlo integralmente a livello delle sue richieste... ognuno ha i suoi bisogni determinati. La fratellanza non risponde a nessuno di questi bisogni, ma al semplice bisogno di avere un bisogno.

Queste confuse riflessioni sulla famiglia e in generale sulla fratellanza, senso della famiglia, mi sorgono dalla serie Six feet under. Benché preferisca di gran lunga il cinema, al punto da dire che è la prima che seguo in maniera imperterrita (eccetto la prima stagione di Berverly Hills 90210, ma avevo 11 anni). Ne sentii parlare in una conferenza (per una volta che una conferenza mi è stata utile).
La coralità di Six feet under mostra quello che ho appena detto grazie all'idea di cadavere. Adattandosi perfettamente al suo medium, per essenza portato ad andare sempre alla prossima puntate, si pone in una commedia umana variegata, in cui la famiglia di becchini si trova sempre a fare i conti con la morte. Spesso come un semplice lavoro, altre volte vedendoci riflessa la propria situazione, d'un riflesso spesso deformante. Lo spessore dei personaggi, inedito per la serie, non gode, per fortuna, di intellettualismo. Si può' dire che loro, ma soprattutto Nate, non hanno alcuna risposta da dare alla morte, eccetto, in qualche modo, una certa vicinanza, una certa empatia, o piuttosto sym-pathia per le persone in lutto e anche per i loro cari. Il rispetto e la sacralità sgorgano senza intenzioni buoniste. Il “piangersi addosso”, questa violenta espressione popolare per coloro che rimuginano, è espunta dalla serie in quanto loro rinnovano ad ogni episodio la propria condizione di mortali dappresso ai cadaveri. Il sottile filo rosso che li collega alla vita viene loro dal convivere con la morte e in particolare dal contatto impossibile con il cadavere, luogo di nascita di un senso che costituisce l'avanzamento immobile (perché misterioso) verso un comune percorso in una precaria ricerca della felicità.

E questo è perfettamente nascosto, perfettamente normale. Il loro mestiere è anzi vendere il lutto, speculare in un certo modo sulla celebrazione del defunto, perché egli possa restare in vita tra i vivi. Ma non siamo allora noi stessi a celebrare, con la nostra stessa vita, la mancanza dei morti? E nelle nostre vicende quotidiane, chiassose di fronte a ciò che richiede un morto, non è solo con una fratellanza minimale, propedeutica dell'amore (dell'avvicinarsi all'altro), che si riesce a sopportare il peso dello sguardo chiuso dei morti?

Rispetto al cadavere, gli altri sono un'illusione, mi sembra, meno vana di quella del nostro affaccendarci... almeno in quanto sono uno sguardo su noi stessi. Anche quando in autobus nessuno mi osserva, e io leggo non curandomi degli altri, che bello pensare di essere con loro per un tragitto. E se non voglio vedere nessuno, che strano volere che loro siano comunque là fuori!

Monday, April 06, 2009

Il banchetto dei gabbiani.

In questi giorni di solitudine anelante primavera, percorro le calli di Venezia in maniera frettolosa, e esco di casa solo per espletare funzioni strettamente vitali. La strada che separa casa mia dal dubbioso tepore delle tovaglie in fantasia bluette del dopo lavoro ferroviario dura cinque minuti appena. Tra le fondazioni e le calli incrocio turisti e studenti; sui gradini del ponte di Calatrava aiuto anziane signore, o avvenenti turiste, in modo zelante e disinteressato da ringraziamenti. Mi affretto, insomma, sebbene nessuno mi aspetti, né a casa né al punto di "ristoro". Il "resto", quello, può sempre aspettare, e aspetterà una vita intera, la mia vita intera.
Questa mattina una signora sporgeva il capo verso il canale. La incuriosiva un cruento banchetto di gabbiani. A turno, attaccavano un povero granchio, che tentava di difendersi con le chele dal rapido becco dei pennuti. A fianco, una carcassa, già svuotata, di un altro granchio giaceva riversa.
Sembrava uno spettacolo, una sorta di duello, che si svolgeva su una barca, coperta da un telo rigido, posto evidentemente per scongiurare l'ingresso della pioggia che ancora non smette di prolungarsi oltre marzo.
Il duello era impari, ma non tanto perché i gabbiani erano in due. Era data da un'indifferenza che era in realtà ostentazione di forza. Infatti, la cosa più strana, era che essi non sembravano affatto curarsi più di tanto del granchio. Sferravano attacchi, e poi, col fare degli animali, si fermavano un attimo, quasi guardandosi intorno (parevano fermarsi e passare ad altro). Disinteressandosi quasi – gabbiani, con queste zampe palmate, quasi ridicole, quasi da un lottatore ai goffi piedi palmati – disinteressandosi quasi della giustezza e del fine dei propri colpi. Eppure, meticolosamente, staccarono una a una, tutte le zampe del granchio, terminando - beffa - proprio con le chele che tanto provavano a difendersi, punto forte della vittima: quelle anteriori, ostinate a lottare fino alla fine. Questo granchio, in questa ridicola posizione di difesa, con le zampette posteriori basse, le chele in alto, aspettando di poter colpire, vidi soccombere: sotto un becco troppo resistente, sotto colpi troppo rapidi.
Con un altro paio di colpi, lo misero sotto-sopra e lo spolparono in qualche secondo.
Ripensai a Grizzly man di Werner Herzog: “non vedo”, diceva così pressapoco la voce fuori campo del regista, “nel volto dell'orso un residuo di umanità... vedo un essere d'istinto”. Nessuno si sognerebbe di trovare della perfidia sotto le penne candide dei gabbiani, con le loro zampe ridicolmente palmate che nuotano lentamente sotto l'acqua, ora che sono sazie della preziosa carne di granchio.
È solo che, vedendo il biancume delle carne di granchio, questa morte pulita, a-sanguigna, ho avvertito un grido che, afferrandomi dal suo mucchietto di ossa, mi trascinava in quest'impotenza subita in maniera quasi superficiale.
Un grido che durò per tutta ieri. Non vidi, infatti, nessuna anima involarsi, ad un certo punto... il che è ovvio, ma nel senso che: non vidi il termine della sua sofferenza. Non notai la morte, non notai uno stacco. Da essa al banchetto, solo continuità. Mi piace pensare che la sua vita non l'ha ancora abbandonato; che forse oggi, quando il pescatore, tirando pesantemente il telo, farà cadere senza curarsene le sue ridicole e forse irriconoscibili frammenti in fondo al canale verdastro, si ricomporrà, ritrovando in fondo alla Laguna la sua vita, il mio pensiero.

Thursday, February 12, 2009

Il castello isolato.

In seguito ad un'epidemia e ad un attacco nemico a sorpresa, nel mio castello non c'è più né re né corte. Il liuto del giullare è appoggiato al muro. I mercanti hanno abbandanato il cortile. Gli animali che circolavano nei viottoli sono pochi, smunti e impauriti.

La contaminazione avviene lentamente, ogni volta che incontro una persona engstirnig a cui non riesco ad oppormi in primo luogo a una labilità dei miei stessi pensieri. Avviene come un'armata nemica che entra in un castello ravagé da una previa epidemia mortale.
Se volessi analizzare il fenomeno, direi che la particolarità sta nel fatto che ciò avviene senza colpo ferire. La contaminazione d'uno spirito libero, sano e infaticabile e non sa resistere all'animo forte e sicuro dell'ottuso a cui egli riconosce determinate ancorché futili qualità. Anche se l'altra persona differisce su qualcosa di profondo, una somiglianza (almeno dal punto di vista della "specie"), specchio datoci come cavallo di Troia, ha già introdotto la sua immagine, e quasi, benché folcloristicamente (oserei dire), acceso la curiosità. E non è il solito problema dell'autarchia (dell'introversione come non-risposta), del silenzio falsamente assecondante, sebbene l'irruenza stuzzichi battibecchi non esperiti e resistenze tacite. Perché è semmai l'introversione che mi pare abbia origine nella spossatezza dell'armata invisibile che ha già saccheggiato la parte migliore del casato già in abbandono. Ormai l'armata ha poco da far bottino: i soldati non si stupiscono però dalla semplicità della conquista, ne approfittano piuttosto per bivaccare volgari e prendere in giro qualche gallina. I pensieri, pochi depauperati sopravvissuti, sono scappati verso i monti: racimolati i più cari beni, sono partiti per miglior asili, ovvero per intraprendere un cammino impervio via di qui, via dal diroccamento, nella speranza d'una stentata sopravvivenza d'una debole stirpe.


La grandiosa tristezza del body-builder.

In una rivista specializzata in body-building mi imbatto nella foto di due energumeni professionisti, dai denti sbiancati e muscolosi perfino nei volti. L'articolo fu “scritto” per sancire un confronto amichevole, di scambi di battute e consigli (com'è consono in uno "sport", in cui non esiste uno scontro fisico diretto né del "gesto", ma schiettamente estetico), tra due americani: un poco più che ventenne, giovane promessa di origine latine, e un afro ultra-trentenne veterano. Forse il fatto che scriva su ciò testimonia anche delle mie alienazioni nei viaggi lunghi in autobus; e in definitiva della mia scelta poco corretta di devolvere 5 euro ai collaboratori della rivista collusi con le aziende di aminoacidi (se non di steroidi), e con mia previa coscienza e dunque aspro senso di colpa, se non fosse che

anche qui, si trattasse d'un caso che va al di là della loro visibile lobotomizzazione. Negli estremi è più facile vedere ciò che è essenziale. Dove c'è il più lontano dall'uomo, si scorge ciò che gli è di più inseparabile.
Questo reportage era costituito da una sequenza di 4-5 foto riproducenti il loro incontro. Il veterano sedeva e pareva ascoltare silenzioso e sicuro. Sui polpacci ipertrofici si stagliavano tatuaggi, striscianti fin sotto i pantaloncini neri. Era vestito sportivo ma sobrio, una T-Shirt molto larga. Di fronte a lui, ecco in piedi il giovane e baldanzoso, con una canottiera per mettere in evidenza i risultati delle sue quotidiane sgobbate; in una foto sollevava la canottiera per ricordargli la sua vita strettissima, da cui si ergevano, a poco più che ad angolo retto, i muscoli sproporzionati del dorso.

Il veterano era tranquillo, sicuro e dallo sguardo basso. Afferrai da subito il suo senso. Tra gli innumerevoli modi fittizi e parziali in cui l'umanità si può suddividere, vi è anche quella, esposta dal fotografo in modo inconsciamente ammirevole, di coloro ai quali piace solo il lavorar sodo, coloro i quali lavorano per qualcos'altro che l'esibizione, e che forse lo fanno solo a rare dosi, dopo mesi e anni d'estenuante (è il caso di dirlo) esercizio. Parossistico se non nobile per un'attività fisica che è esso stesso esibizione pura (e lavoro per l'esibizione stessa). “Ho iniziato col body-building professionale da quando le ragazze si giravano a guardarmi in strada” (forse perché è esagerato?). Il nero seduto lo guarda soddisfatto. Non vi è disprezzo, né, in fondo, stima, ma partecipazione e empatia. A lui interessa solo rimetter su pesi su quella panca, e sollevare, per l'ennesimo giorno nel medesimo modo, quei chili, pensando allo shake iperproteico che lo aspetta. Il doping rappresenta addirittura l'esporsi (assurdo e ingiustificabile) alla morte piuttosto che al vivere, che al continuare ad esporsi allo sguardo degli altri. In quella sproporzione innaturale cacoestetica e masochistica c'è un paradosso poetico, egli potrebbe essere un'autodistruttiva biografia dell'inutilità del lavoro e della gratuità dello sforzo: e ciò, perché è camuffata sotto il suo esatto contrario, la fierezza, l'abbondanza, il narcisismo, perché il loro eccesso del body-building professionista offre ispirazione. Il body-builder offre ben di più che il banale farsi opera d'arte degli studenti delle Università e dei riferimenti colti dei professori: esso mostra . Colui che saprà a malapena scrivere il numero delle serie allo squat, passa le sue giornate a lavorare per nulla in fondo, colluso con la morte: a lui interessa tornare a sollevare i manubri per un tempo in fondo breve, tornare a casa sapendo che domani dovrà costruirlo di più. E il body-builder conosce il suo tragico: verrà giudicato su un criterio estetico, non di performance (dei chili sollevati): il suo risultato non è mai direttamente il suo lavoro.

Già me lo vedo, quando rimette il suo zaino in spalla, dopo una gara, lievemente contento per averla vinta, decisamente preso dal programma della settimana successiva.
Già me lo vedo, uno spettro in famiglia, con in testa solo il su e giù del bilanciere, e il suo ricordo soddisfatto, mentre, perdutamente, si immischia ancor più in affari con la più stupida e deleteria (e illegale) delle fini, che gli scorre nelle vene sotto forme di testosterone esogeno; uno spettro nel bar con gli amici, che aspetta solo l'ora cadenzata ogni tre, per nutrirsi adeguatamente, per essere più pronto la volta seguente - novello Sisifo, ricominciante ogni giorno l'assurdo compito di spostare pezzi di ferro, e cui la scienza del guadagno fisico (intelligenza nel non-senso), spinta alla più alta modestia, non concede neppure il nuovo slancio del vivere sociale, imperniato di ormoni in esubero ed atrofizzato nella sua virilità, nei suoi testicoli.

O quanta tristezza grandiosa!

Spesso all'Università ci si accontenta di così poco. E lo si fa nel modo ben più sordido: nella rassicurante tronfiezza del concetto. Che, si ben si vedesse, sarebbe il primo a crollare sotto la sferza del lavoro interminabile e insensato del body-builder, lavoro per sé che in un breve istante spezza, esibendosi, l'ordine delle cose. "Ce qui est fait, reste à faire" (V. Jankélévitch)

Monday, January 19, 2009

John Fante and his father, me and my father.


I've never been able to write something about my father yet, especially after his death.

Those are the words of John Fante. I remember now the same behaviour of my gaze, the same growing feelings culminating to a moment of tacit battle.

"I will look at my father over the rim of my wine glass. I will see myself. I will know again the streak of cruelty and treachery within me by looking at my father. I will look at the hands of my father, and a turning and a grinding will go on within me, for my father still has the seeds of greatness in him, but they have been choked by the treachery and cruelty that I know - always too late - crouch in me. My father will catch the feeling in me, and in his eyes it will come out for me to look upon, and he will see the same lurking in my eyes, and we will not have strong enough chins to glare at each other, and let those two pairs of eyes collide, and kill that lurking which lies in both our eyes". (quote from the short story: Home sweet home)

Friday, January 16, 2009

Dal macellaio.

Entro. C'è fila. Mi siedo. Aspetto, con calma, il mio turno.
Un tozzo rosso sangue passa dalla mano sinistra alla destra, si poggia molle sull'acciaio adattandosi, nella parte inferiore, al ripiano del macchinario sul quale il macellaio sta ritagliandogli un posto di riguardo. “È il più bel pezzo che ho”. Nel frattempo la parte superiore del filetto ha ripreso la forma di quando è poggiata in bella vista sotto i nostri occhi, dietro il vetro del banco. Cosciente della sua magia, il macellaio ci nasconde il pezzo intero per farne uscire, all'unisono con un rumore di lame meccaniche (evidentemente nascoste, da prestigiatore), trance dallo spessore uguale e dalla nervatura diversa, una di seguito all'altra. Con soddisfazione, poi, il filetto e il suo faccendiere vanno a poggiarsi l'uno sul vassoio di plastica nel banco, l'altro sul vimini della sedia nella cassa. L'uno è visibilmente diminuito nel volume, ma conserva ancora, e questo fino all'ultima fetta, la sua rossa fierezza; l'altro è ugualmente fiero del suo lavoro, nel mentre dello scontrino discorre bonariamente di moglie e figli, logorio non manifesto di una giornata iniziata presto.

L'esatto contrario sono io sulla sedia, e lo sono le mie giornate. Più mi affatico nei pensieri, più l'oggetto cresce, a volte varia un poco, altre volte muta imperscrutabilmente. E domani non ne sarà ordinato uno uguale. E solo perché domani, dopo averli ispezionati, maniés, ritornino l'indomani al loro stato di splendore: interi, posti sopra la mia scrivania, attorno a me durante la mia passeggiata, in equilibrio sul manubrio della mia bicicletta, persino infilati nel vuoto cilindro carta igienica. Il corso del pensiero richiede connessioni impreviste, visto che non è affatto il mio pensiero che è in gioco, né un oggetto, ma me stesso. Afferrarmi diventa un problema, li ritorco conto, i pensieri si svuotano, cerco invano fuori da me, un caos di pulsioni prende il sopravvento della situazione e tutto salta in aria.

Vorrei a volte, ma non potrei... come fa il macellaio quando, per richiamare l'attenzione della sua magia dei bambini distratti, offrire alla vista il suo taglio perfetto.

Tuesday, January 13, 2009

Al di là della "morosité".

Molto spesso non vedo l'ora di uscire, fisicamente, dal mio pezzo di mondo. Per quanto le intraprendenze del “lavoro” portino a spostarmi, non c'è comunque una baita che mi soddisfi, un posto caldo in cui fermarmi per prendere una sosta e magari, seduto su una sedia piccola e scomoda, allungare le gambe stanche sotto il tavolo di una cena pronta.
Presentivo ciò praticamente da quando ho una coscienza abbastanza articolata da poter capire che qualcosa intorno al mio corpo esiste e sarà per sempre diverso da me. Pensavo, un tempo, che bastasse muoversi, che le esperienze erano una brocca che riempiva la mia tazza col latte di una nuova mattina.
Mi sbagliavo, visto che, se ho ottenuto qualcosa, quello che trovo ora non serve neanche a rispondere alle domande che ricordo vagamente parte de quello stesso passato – anche se forse a quel tempo mi sembrava avessero risposte, da qualche parte, pur non possedendole: bastava cercarle, ricercarle, fare delle ricerche, fare ricerca.
Viaggiare era aprire la finestra in una stanza otturata dall'aria viziata.
Ora sento che tira una corrente fresca tra quattro pareti squallide di un ostello del Bronx d'Italia che è Mestre; dopo qualche ora passata a rimuginare i malori, sento schiudere gli alveoli polmonari, ossigeno atto a depurare il mio sangue denso.
Ora è l'aria di fuori a essere stantia.

Tuesday, January 06, 2009

"Saraband" di I. Bergman

Anche nell'ultimo film di Ingmar Bergman la tensione dei dialoghi è creata dalle incrinature psicologiche determinanti un'esistenza: nel sogno che nasconde quelle sbagliate, nel rimpianto di quelle che sembravano giuste. Ogni personaggio, va da sé, ha uno spessore, un contrasto non sanato - né soprattutto sanabile. Con ogni suo gesto ne seppellisce mille altri, eccetto forse Marianne, raminga nell'anima, che si astiene da ogni giudizio, e che rappresenta, in una thlipsis (il cor inquietus) al femminile (l'ascolto, il gesto gratuito), la cerniera delle solitudini dell'insieme dei personaggi, in quanto, forse, il personaggio più solo, che viene dalla città, qui altra e irrappresentabile, forse migliore o forse solo asettico, o magari parallelo alle solitudini sperdute nei boschi svedesi.

Non la decifrazione analitica ma il rilancio verso un presente gravido di possibilità: questa la psicologia, questo il senso della pietà per l'uomo, per i suoi errori, che ha luogo nell'evocazione con i ricordi e continua con la coscienza dell'impossibilità di uscire dall'esistenza – concepita come impasse, come errore, ma allo stesso tempo come una marcia di compromessi in cui solo l'affetto, dal momento in cui tutto è sbagliato, può scompaginare, in momenti teneri, il corso del destino.
La lezione che potrebbe trarne un cineasta potrebbe essere: plot semplice, bellezza di scrittura, tensione esistenziale di pochi personaggi, pochi luoghi, scelte che sigillano un'esistenza, senso di essa nei gesti e che emersione di essa nei dialoghi (e nella gestualità di essa). Sembrano escamotages teatrali, ma in realtà i cambi di riprese sono dei tuffi nei tratti dei personaggi, e evidenziatori del risalto dei gesti.

Marianne non ha mai risposte al suo essere lì (“sentivo che mi chiamavi” dice al marito nel finale, “ma io non ti ho chiamato”, le risponde lui). È lì come se fosse una necessità, un bisogno, ma non rispetto alla sua personalità, rispetto a un senso da costruire. Il segreto è che il suo porsi rispetto agli altri non è mai autoritario o personale, è fatto di una saggezza che viene dalla pietà verso Johan et la famiglia – una pietà che non è commiserazione, ma fiducia, la quale è il credo stesso di Bergman verso il mondo di coppia e la vecchiaia:

"Al di là di ogni cosa esiste la pietà, e la comprensione. Forse è ancora possibile curare le nostre ferite, vivere ciò che resta e volerci bene. Io non farò più niente che possa cancellarti dalla mia vita... ho ancora fiducia" (da I. Bergman, Sinfonia d'autunno utlima scena).

La sexualité et l'amour à l'époque de Houellebecq.

« De nature transitoire, je m'étais attaché à une chose transitoire, conformément à ma nature – tout cela n'appelait aucun commentaire particulier ». (M. Houellebecq, Plateforme, p. 333).

Au lecteur capable d'en dévorer les pages, de finir au bout de quelques heures Plateforme, roman de Houllebecq, j'aurais envie de lui suggérer que la raison d'une telle vitesse de lecture n'est pas seulement due à l'attachement que donne la récurrente méticulosité de descriptions des actes sexuelles. Il doit y avoir une participation à l'écriture dans l'acte de lecture, une sorte d'écriture dans l'esprit. La participation à l'écriture de Houllebecq s'accellère par la sexualité. Mais si le lecteur croit qu'il s'agit là d'une part maudite, elle est en réalité légère, répandue, et peut-être pas aussi maudite que cela.

 La matière des romans de Houllebecq, à l'exception de La possibilité d'une île, qui propose une mise en page et l'entrée en jeu de la science fiction et aussi de Les particules élémentaires, à cause d'un caractère plus théorique, suite à la découverte de Michel Djerzinski sur l'origine du lien entre les particules), est à phases alternes. C'est un signe stylistique fort de ses romans, qui marque cependant sa platitude. Des moments (très ou trop longs) de vrai bavardage entre les personnages (des discussions sur le travail concernant le travail même, souvent complètement décousues de l'histoire principale ou d'un parcours de formation des personnages) laissent la place à une écriture absolument nihiliste dans son fond, privée de toute mise en valeur d'aspect du réel – au sens fort d'un surgissement quelconque de valeurs morales ou existentielles – Houllebecq transporte ses lecteurs dans une sexualité effrénée  non pas au sens outrancier à la Sade (lié à la mise en abîme du désir), mais au sens d'un homme quadragénaire du troisième millénaire, encore amoureux de l'amour. L'actualité romantique élevé au rang du sexe, on pourrait dire. Le sexe est en partie alors le fil rouge que anime le livre, dans ses caractères les plus « pornement » matérielles. Voici un exemple:

« Elle m'attira vers elle et chuchota à mon oreille: « Viens... ». A ce moment, je sentis les parois de sa chatte qui se refermaient sur mon sexe. J'ai eu l'impression de m'évanouir dans l'espace, seul mon sexe était vivant, parcouru par une ombre de plaisir incroyablement violente. J'éjaculais longuement, à plusieurs reprises; tout à fait à la fin, je me rendis compte que je hurlais. J'aurais pu mourir pour un moment comme ça ».

Mais la matérialité n'est qu'apparente. Le sexe est fonction de l'amour chez Houllebecq. De manière analogue à l’héroïsme chevaleresque dans le Moyen-Age. La sexualité, recherché un travers de l'amour (Plateforme) ou du besoin d'amour (La Possibilité d'une île)  ou de l'attente de l'amour (Les Particules élémentaires), n'a aucune valeur en soi. Houellebecq voit juste, dans l'époque du "nihilisme" des masses, ce que ses lecteurs ne peuvent pas voir. C'est pour cela que son écriture de la platitude est en réalité une écriture du cœur de notre temps, au cœur de ses lecteurs.
Le pressentiment, c'est donc que nous méritons cet auteur, qui ne dépassera jamais cette époque. Il l'incarne comme le nec plus ultra de cette époque, son représentant suprême, on pourrait dire en exagérant: son prophète. La parole du prophète qui s'empare de sa réception Et cela non pas à cause d'une quelconque médiocrité de son oeuvre, qui meme a été évoquée par des critiques. C'est parce que la pornographie de ses images ne fait que réaffirmer, en la véhiculant, la vision de l'amour telle que la tradition nous l'a transmise: comme unicité de son objet et comme fil tendu au-delà du rapport sexuel. Et cet objet du désir (Valérie, Isabelle), matériellement saisi sans altérité sinon dans celle qui va se mettre en évidence dans le rapport sexuel, va etre perdu de manière tragique, ou interrompu per causa di forza maggiore. Si les rapports échouent, ce n'est que par des raisons de finitude ou de circonstance.

« Valérie [...] faisait partie de ces êtres qui sont capables de dédier leur vie au bonheur de quelqu'un, d'en faire très directement leur but. Ce phénomène est un mystère. En lui résident le bonheur, la simplicité et la joie » (Plateforme, p. 349)

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006