Saturday, April 18, 2009

Fratellanza e cadaveri a partire da 6 feet under

Il senso della famiglia mi pare legato al sentimento della caducità di sé - se per famiglia intendiamo il permanere nel tendere una mano al prossimo del mio passato in maniera responsabilmente (to take over), e, in questo "prendere oltre", perseverare tale unione nel presente.
Esso è innanzitutto un segno di non belligeranza: si tende la mano per non ferire.
“Tendere la mano” è qui generico per dire: non voglio impossessarmi di voi, né voglio che voi lo facciate di me. Ma tendere la mano non è uno spazio neutro: non c'è alcuno spazio che è diviso, c'è l'immediatezza di un contatto immediatamente stabilito, un contatto che non può trovare nessun luogo se non il contatto stesso, cioè la dichiarazione tacita d'intenti.
L'altro è mortale, è ledibile, ma io non voglio che egli divenga così. La fratellanza è il contrario della forza, ma anche e soprattutto dell'obbligo, visto che essa non obbliga a nulla che non sia già un tenersi in contatto.
Al massimo, è questa genericità del contatto a chiuderla a un orizzonte totalmente “liberato”. Che non ci sia nient'altro che la fratellanza, che questo momento di fratellanza (che poi è gemellato con la pietà e la compassione, il darsi pena per l'esistente in quanto tale), accade senza però ricambiarlo integralmente a livello delle sue richieste... ognuno ha i suoi bisogni determinati. La fratellanza non risponde a nessuno di questi bisogni, ma al semplice bisogno di avere un bisogno.

Queste confuse riflessioni sulla famiglia e in generale sulla fratellanza, senso della famiglia, mi sorgono dalla serie Six feet under. Benché preferisca di gran lunga il cinema, al punto da dire che è la prima che seguo in maniera imperterrita (eccetto la prima stagione di Berverly Hills 90210, ma avevo 11 anni). Ne sentii parlare in una conferenza (per una volta che una conferenza mi è stata utile).
La coralità di Six feet under mostra quello che ho appena detto grazie all'idea di cadavere. Adattandosi perfettamente al suo medium, per essenza portato ad andare sempre alla prossima puntate, si pone in una commedia umana variegata, in cui la famiglia di becchini si trova sempre a fare i conti con la morte. Spesso come un semplice lavoro, altre volte vedendoci riflessa la propria situazione, d'un riflesso spesso deformante. Lo spessore dei personaggi, inedito per la serie, non gode, per fortuna, di intellettualismo. Si può' dire che loro, ma soprattutto Nate, non hanno alcuna risposta da dare alla morte, eccetto, in qualche modo, una certa vicinanza, una certa empatia, o piuttosto sym-pathia per le persone in lutto e anche per i loro cari. Il rispetto e la sacralità sgorgano senza intenzioni buoniste. Il “piangersi addosso”, questa violenta espressione popolare per coloro che rimuginano, è espunta dalla serie in quanto loro rinnovano ad ogni episodio la propria condizione di mortali dappresso ai cadaveri. Il sottile filo rosso che li collega alla vita viene loro dal convivere con la morte e in particolare dal contatto impossibile con il cadavere, luogo di nascita di un senso che costituisce l'avanzamento immobile (perché misterioso) verso un comune percorso in una precaria ricerca della felicità.

E questo è perfettamente nascosto, perfettamente normale. Il loro mestiere è anzi vendere il lutto, speculare in un certo modo sulla celebrazione del defunto, perché egli possa restare in vita tra i vivi. Ma non siamo allora noi stessi a celebrare, con la nostra stessa vita, la mancanza dei morti? E nelle nostre vicende quotidiane, chiassose di fronte a ciò che richiede un morto, non è solo con una fratellanza minimale, propedeutica dell'amore (dell'avvicinarsi all'altro), che si riesce a sopportare il peso dello sguardo chiuso dei morti?

Rispetto al cadavere, gli altri sono un'illusione, mi sembra, meno vana di quella del nostro affaccendarci... almeno in quanto sono uno sguardo su noi stessi. Anche quando in autobus nessuno mi osserva, e io leggo non curandomi degli altri, che bello pensare di essere con loro per un tragitto. E se non voglio vedere nessuno, che strano volere che loro siano comunque là fuori!

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Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006