Monday, April 06, 2009

Il banchetto dei gabbiani.

In questi giorni di solitudine anelante primavera, percorro le calli di Venezia in maniera frettolosa, e esco di casa solo per espletare funzioni strettamente vitali. La strada che separa casa mia dal dubbioso tepore delle tovaglie in fantasia bluette del dopo lavoro ferroviario dura cinque minuti appena. Tra le fondazioni e le calli incrocio turisti e studenti; sui gradini del ponte di Calatrava aiuto anziane signore, o avvenenti turiste, in modo zelante e disinteressato da ringraziamenti. Mi affretto, insomma, sebbene nessuno mi aspetti, né a casa né al punto di "ristoro". Il "resto", quello, può sempre aspettare, e aspetterà una vita intera, la mia vita intera.
Questa mattina una signora sporgeva il capo verso il canale. La incuriosiva un cruento banchetto di gabbiani. A turno, attaccavano un povero granchio, che tentava di difendersi con le chele dal rapido becco dei pennuti. A fianco, una carcassa, già svuotata, di un altro granchio giaceva riversa.
Sembrava uno spettacolo, una sorta di duello, che si svolgeva su una barca, coperta da un telo rigido, posto evidentemente per scongiurare l'ingresso della pioggia che ancora non smette di prolungarsi oltre marzo.
Il duello era impari, ma non tanto perché i gabbiani erano in due. Era data da un'indifferenza che era in realtà ostentazione di forza. Infatti, la cosa più strana, era che essi non sembravano affatto curarsi più di tanto del granchio. Sferravano attacchi, e poi, col fare degli animali, si fermavano un attimo, quasi guardandosi intorno (parevano fermarsi e passare ad altro). Disinteressandosi quasi – gabbiani, con queste zampe palmate, quasi ridicole, quasi da un lottatore ai goffi piedi palmati – disinteressandosi quasi della giustezza e del fine dei propri colpi. Eppure, meticolosamente, staccarono una a una, tutte le zampe del granchio, terminando - beffa - proprio con le chele che tanto provavano a difendersi, punto forte della vittima: quelle anteriori, ostinate a lottare fino alla fine. Questo granchio, in questa ridicola posizione di difesa, con le zampette posteriori basse, le chele in alto, aspettando di poter colpire, vidi soccombere: sotto un becco troppo resistente, sotto colpi troppo rapidi.
Con un altro paio di colpi, lo misero sotto-sopra e lo spolparono in qualche secondo.
Ripensai a Grizzly man di Werner Herzog: “non vedo”, diceva così pressapoco la voce fuori campo del regista, “nel volto dell'orso un residuo di umanità... vedo un essere d'istinto”. Nessuno si sognerebbe di trovare della perfidia sotto le penne candide dei gabbiani, con le loro zampe ridicolmente palmate che nuotano lentamente sotto l'acqua, ora che sono sazie della preziosa carne di granchio.
È solo che, vedendo il biancume delle carne di granchio, questa morte pulita, a-sanguigna, ho avvertito un grido che, afferrandomi dal suo mucchietto di ossa, mi trascinava in quest'impotenza subita in maniera quasi superficiale.
Un grido che durò per tutta ieri. Non vidi, infatti, nessuna anima involarsi, ad un certo punto... il che è ovvio, ma nel senso che: non vidi il termine della sua sofferenza. Non notai la morte, non notai uno stacco. Da essa al banchetto, solo continuità. Mi piace pensare che la sua vita non l'ha ancora abbandonato; che forse oggi, quando il pescatore, tirando pesantemente il telo, farà cadere senza curarsene le sue ridicole e forse irriconoscibili frammenti in fondo al canale verdastro, si ricomporrà, ritrovando in fondo alla Laguna la sua vita, il mio pensiero.

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Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

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