
Ma a quale tipo di domande le neuroscienze rispondono? Ciò è insidioso in quanto ci apre alla genealogia di questa disciplina, come domanda sul valore e sul senso di essa.
Esse constatano empiricamente che nel cervello vi siano innumerevoli sinapsi (e che vi sono più possibilità di connessioni tra esse che atomi nell'universo, com'è noto); scoprona cosa accade quando si assumono droghe, che la sensazione di euforia di un momento è data dalla dopamina. Pur tuttavia, è facile spiegare che tali studi non ci dicono nulla riguardo al funzionamento di ciò che è nel possibile; la disciplina, pur fornendo modelli di pensiero fecondi, non ci invita a modellare i nostri confini interiori nella comprensione razionale, nello stupore, nella narcotizzazione, nell'euforia e nell'attrazione. Come ogni scienza, essa ci salva dalla stregoneria, e cioè dall'approccio magico ai fenomeni naturali. Meglio ancora, bisognerebbe aggiungere, tali studi occultano le esperienze e tendono, con la postura naturalistica, a praticare una stregoneria del pensiero. La donna desiderata è meno la causa cascata di feromoni, che ciò che il peggior misogino della terra rileva in una conversazione al bar con dei negletti di periferia. Ma il problema, si dirà, non è tanto delle neuroscienze quanto della reiscrizione di esse della vita umana. In fondo, appunto, le neuroscienze trattano solo di sinapsi, di ricezioni di feromoni, ecc. La stregoneria, nella sua aura mitica, è un prodotto reazionario per la società e per l'uomo, così come la neuroscienza.
Eppure la neuroscienza non può assumere una funzione ancillare del pensiero: essa pretende già derivare precedentemente la realtà dalla visione sperimentale, che avrebbe invece dovuto essere messa sotto scacco quando in gioco vi è l'orizzonte del proprio comprendersi tramite la modificazione esistenziale di sé.
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