Mura canali ponti assorbono la poca luce piuttosto che riverberarla. La calle, stretta e lunga, spinge verso i passanti incontro. È la città stessa che parla in vece della sua architettura. E la sua fioca illuminazione dei lunghi pomeriggi autunnali, è la tenebra dello spirito. In essa mi perdo e trovo per rincuorarmi solo l'effetto d'ombra che è in me ora, e che riabilita invece, misteriosamente, per un attimo una luce interna. Con l'oscurità, di fronte alle persone a cui sono improvvisato, quelle che devo schivare per passare in un sottoportego, ritorna una mia faccenda che dir bene non so. Il lampione, ritto tra canale e terra, nella sua fierezza lascia rischiarato un tenue orizzonte. Mi inoltro, spostandomi per i più futili motivi poi, nell'ignoto che lascia appena intravedere. I volti delle persone diventano leggeri e io subito li idealizzo, se il mio stato d'animo è allegro o propende all'estro; subito li abbandono con disprezzo non appena, invece, ho buttato in me un poco di quella zavorra lenta che neanche un faro potrebbe rischiarare, abbandonato come sono in acque di nessuno.
La volontà di ricevere luce è in fondo la stessa che mi domanda chiarezza rigore e ambizione, e che da sotto io trasformo in oscurità sregolatezza e involuzione. Mi rendo conto che Venezia è una città mia non tanto dal momento in cui vedo una corrispondenza tra la sua oscurità, tra l'offuscamento e la perversione dell'ombra che Essa procura sul volto dei suoi passanti e il mio spirito ruminante, ma da quello in cui mi dileguo come un cittadino qualunque, indegno ammutinatore di istanze mai sopite – me che continuo a fare finta, come un suo passeggero casuale, che in fondo camminare nelle strettoie conduce, come mi piace pensare e come in fondo la Città mi riserva sempre, a campielli di storia, di socialità, e di appagamento.
La volontà di ricevere luce è in fondo la stessa che mi domanda chiarezza rigore e ambizione, e che da sotto io trasformo in oscurità sregolatezza e involuzione. Mi rendo conto che Venezia è una città mia non tanto dal momento in cui vedo una corrispondenza tra la sua oscurità, tra l'offuscamento e la perversione dell'ombra che Essa procura sul volto dei suoi passanti e il mio spirito ruminante, ma da quello in cui mi dileguo come un cittadino qualunque, indegno ammutinatore di istanze mai sopite – me che continuo a fare finta, come un suo passeggero casuale, che in fondo camminare nelle strettoie conduce, come mi piace pensare e come in fondo la Città mi riserva sempre, a campielli di storia, di socialità, e di appagamento.
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