
Oggi ho un totem a casa. Non è fatto di pelli di animali appaiati su un grosso bastone; non mi guarda con gli occhi eccessivamente appiattiti e sproporzionati di una maschera africana. È un oggetto molto comune, del valore di un decimo del mio stipendio, che, per essere stato sottratto furtivamente a qualcuno, e per essere il centro di convergenza del mio senso di colpa, è ora poggiato in altezza su una poltrona di casa mia, sulla destra del mio televisore, e esattamente di fronte al divano su cui mangio. Convogliando il mio senso di colpa, la sporcizia del mio stato d'animo d'ora, la ritrovo, attraverso le sue forme graziose ed equilibrate, l'ergonomia morbida della sua silouhette, e i colori sgargianti, come un feticcio, un assurdo oggetto spostato dal suo contesto e ritto in piedi, nuovo interlocutore dei miei pomeriggi persi, nuovo simbolo del peccato. Era molto che non pensavo al peccato; lo confinavo a una linea precedente e contemporanea a Dio; ho potuto, cosi', seppellirla nel candore delle mie passeggiate fuori il perimetro parrocchiale, negli sguardi all'altezza asimmettrica della cattedrale di Strasburgo, nei pensieri di altri – artisti, timorosi di Dio. Ma quando si pecca, Dio non c'entra. Il timore di Dio neanche. Il timore nasce dall'aver infranto un ordine, reale più che morale. Il feticcio è qui a dirmi che non ci dovrebbe essere, o che io non dovrei essere qui con lui.
I segnali si facevano più forti paradossalmente, quando ho inforcato la bicicletta e ho conquistato terreno – quando non potevo più essere scoperto. La paura di essere colto di improvviso ha lasciato il posto a una sensazione di persecuzione metafisica. Sono entrato in una sorta di ermeneutica del cattivo: ciò che mi capitava di buono (un semaforo verde) era un motivo per accellerare la mia marcia verso casa, verso la tana; ciò che sembrava non andare bene, era un segno di castigo. La potrei pagare più cara. Il moscone nero pece che mi aspettava a casa sembrava uscito da un acquaforte spaventosa di Goya; la rottura di una lampidina qualche minuto dopo faceva presagire che da quel momento in poi la colpa trascendeva il momento del fatto e l'ordine costituito.
Cosi', ho posto l'oggetto come feticcio. Mi sono messo dei bei vestiti e mi sono messo a mangiare. Tra poco scriverò di questa esperienza del peccato che ritorna dopo molti anni di assenza. Certo, ho peccato anche in questi anni, ma l'ho fatto solo moralmente. Ho lasciato gli oggetti ai loro proprietari; ho rubato persone, stati affettivi, investimenti emotivi; ma l'immeritato non si distingue appunto dal latrocinio che per una reversitibilità e una simmetria nella colpa? L'oggetto, invece, è sempre feticcio. Possedere un oggetto, rinchiudere un animale selvatico in gabbia, o rendere oggetto una persona come l'abduzione, è sempre più difficile perché esso è sempre l'icona di se stessi.
A volte sento questo quando vedo una persona che ho forgiato un po' a mio modo; ma anche allora, vedo il mostro che è in me ma so che non sono tutto io, che di fatto l'abnorme che si è estrinsecato ha comunque voluto un'altra coscienza. E allora non posso farlo feticcio, e il feticcio non si può trasformare in totem. Non posso fare si' che esso i chiami, perché le persone rispondono sempre e ti stupiscono sempre, il totem mi ricorda la mia stasi e nel frattempo la iconizza rigettandomi nel peccato immemoriale che infesterà la mia giornata, prima che domani passi, restituendolo o meno.
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