Thursday, July 30, 2009

Limiti tra memoria e oggettività: "Valzer con Bashir" e la non-indifferenza


Dopo una gelosa inappetenza alla scrittura, o al pensiero in generale, Valzer con Bashir mi dà la forza di sollevare il monitor del laptop, e riscoprire, come a un disseppellimento di un antenato, che il caro defunto è un cumulo di polvere tra le ossa come tra i tasti.

Ad ogni modo: se si apre la bara, si dà un'occhiata, e si guadagna anche del posto nella cappella di famiglia: questa polvere troverà un posto più adeguato nell'ossario, c'è dello spazio libero per nuovi morti più voluminosi - i cadaveri freschi occupano più spazio. Scrivendo riesco a mettere da parte il lato di me che è più impellente ora, lo "archivio", gli offro uno spazio più ridotto, ma non per questo angusto: è in fondo la mia vita ad essere una lotta continua per una ricerca di spazio, una prova generale per conservare ossa e incamerare cadaverizzazioni di me. Così, poco resta per la menzogna che mi canzona da un fuori che non conosco.

Valzer con Bashir mi ha spinto di fronte al blank della pagina perché in fondo racchiude tutto ciò che ho da dire al mondo, pur partendo da un'esperienza privata del regista e da un momento storico definito (e pur parlando solo di quello). Il regista racconta attraverso disegni animati il suo tentativo di ricostruire il ricordo del giorno del massacro di Sabra e Shatila durante la guerra israeliana in Libano (massacro di civili, genocidio palestinese effettuato dai Falangisti cristiani alleati dell'esercito ebreo). La sovrapposizione con la Shoah sarà il senso del tentativo di rimozione della sua coscienza, attraverso il ricordo di lui lì, di notte a schiarire (inconsapevolmente) il lavoro degli aguzzini con dei razzi al fosforo. La memoria e l'oblio malgrado se stessi, la presa in conto di un'intera sua esistenza nella ricostruzione del senso del sé (non un sé inglobandosi tutto, ma un sé la cui narrazione su di sé sia concentrata, in quest'atto stesso, con lo sviluppo sensato degli eventi della propria vita), le ripercussioni che essa ha nel mondo – un mondo che, pur non dipendendo unicamente da tale “sé” (anzi in modo puramente contingente, non avendo egli consapevolezza di ciò che accadde la notte di Sabra e Shatila), costringe quest'ultimo ad assumere una colpa per una collaborazione, e ciò in virtù del ricordo cancellato, tale “amnesia dissociativa”, segno di una volontà inconscia di arrestare di colui che schiarì, come altri soldati, la notte agli aguzzini, con sé.

La fenomenologia, ancorata sempre alle esperienze più grezze e al primato dell'evidenza, dell'intuizione o del significato, non può dirci molto su tale complessa vicenda esistenziale (“supplementata” pure dalla messa a punto cinematografica, dalla terapia in qualche modo che questo film fu per il regista, a partire dai disegni animati stessi). Eppure di questa vicenda ne va molto di più che del senso dell'essere in generale o del senso della costituzione di un qualsiasi oggetto, visto che ne va del senso del sé e del senso del dare senso al passato in vista non solo di un futuro, ma del presente (e del farsi stesso della terapia come filmmaking). La soluzione che gli dà un amico è questa: "smettila di chiederlo a me e ai tuoi amici, ai commilitoni che erano con te 20 anni fa (ché anch'essi hanno rimosso), e vai a chiedere alla gente: più testimonianze trovi, più ti avvicini alla verità” (in un inattuale privilegio della quantità nell'autosviluppo psichico).
È necessario a questo momento incontrare i superstiti, o coloro che hanno vissuto la stessa notte da angolazioni differenti.
Se la scena finale che collega le immagini del suo ricordo (e dunque in animazione come tutto il film) con quelle documentaristiche filmate, lo è nel senso di una capacità di accedere a quelle immagini "vere" attraverso un percorso fino a quel punto "ricostruito" o "fittivo": è dare all'oggettivo un carico di emotività. Per una volta, di fronte alla bruta realtà documentata, non si può restare chiusi in un relativismo e in un'ermeneutica dell'oggettualità. Certo, il fatto non è mai bruto e grezzo; è sempre a porsi dopo un evento di senso. Ma l'occultazione ha i suoi limiti. Il suo ricordo volontario di quella notte si arrestava infatti quando incrociava la fiumane di donne profughe.
Con un travelling verso il protagonista, si scorgono questa volta le immagini di quelle anziane donne che accorrono verso la camera, disperate per aver perso tutto. E poi, come se non bastasse, inquadratura sui cadaveri, di giovani, donne, e infine un bambino. Immagini che richiederebbero anche pudore, ma che qui acquistano proprio quella necessità di essere viste attraverso un filmato terzo (e non attraverso i ricordi o l'inchiesta, che sono in cartone animato), anche se si tratta di cadaveri, ché non sarebbe un'offesa a loro: quei cadaveri è ciò che pure vi fu, che forse vide il regista stesso, ma che non può ricordare). E anche se non furono quelle esattamente le immagini che vide, è come se lo furono, visto che in quella notte ciò accadde. Le informazioni che ci giungono sono a volte più importanti del vissuto in prima persona, sono rielaborate al punto da offuscare qualunque ricordo, sovrapporsi ad esso e soprattutto “sensare” il ricordo (al punto da ricoprirlo). Chiamarle “Informazione” è dunque offensivo, visto che un'informazione sembra essere un non-necessario, una risposta ad una richiesta accessoria. Sono ciò che effettivamente furono, forse meglio di quanto noi possiamo dire e di quanto noi ricordammo. Sono l'arresto della macchina del ricordo e l'inizio del vero che deve essere moralmente preso come tale. Furono effettivamente la possibilità per noi in quel momento, ed è il compito quello di renderle nel loro esser vere immagini filmiche allorché il resto, non solo i ricordi (che possono aggiungere dettagli e modificarsi a piacimento – senza nostra volontà) ma anche la volontà stessa di ricostruirli possono entrambi essere un possibile falso. Il preteso oggettivo, dopo un percorso esistenziale del ricordo, non è indifferente, non è materia morta documentante morti.

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Sappho

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"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

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Berlinale 2006