Thursday, February 12, 2009

La grandiosa tristezza del body-builder.

In una rivista specializzata in body-building mi imbatto nella foto di due energumeni professionisti, dai denti sbiancati e muscolosi perfino nei volti. L'articolo fu “scritto” per sancire un confronto amichevole, di scambi di battute e consigli (com'è consono in uno "sport", in cui non esiste uno scontro fisico diretto né del "gesto", ma schiettamente estetico), tra due americani: un poco più che ventenne, giovane promessa di origine latine, e un afro ultra-trentenne veterano. Forse il fatto che scriva su ciò testimonia anche delle mie alienazioni nei viaggi lunghi in autobus; e in definitiva della mia scelta poco corretta di devolvere 5 euro ai collaboratori della rivista collusi con le aziende di aminoacidi (se non di steroidi), e con mia previa coscienza e dunque aspro senso di colpa, se non fosse che

anche qui, si trattasse d'un caso che va al di là della loro visibile lobotomizzazione. Negli estremi è più facile vedere ciò che è essenziale. Dove c'è il più lontano dall'uomo, si scorge ciò che gli è di più inseparabile.
Questo reportage era costituito da una sequenza di 4-5 foto riproducenti il loro incontro. Il veterano sedeva e pareva ascoltare silenzioso e sicuro. Sui polpacci ipertrofici si stagliavano tatuaggi, striscianti fin sotto i pantaloncini neri. Era vestito sportivo ma sobrio, una T-Shirt molto larga. Di fronte a lui, ecco in piedi il giovane e baldanzoso, con una canottiera per mettere in evidenza i risultati delle sue quotidiane sgobbate; in una foto sollevava la canottiera per ricordargli la sua vita strettissima, da cui si ergevano, a poco più che ad angolo retto, i muscoli sproporzionati del dorso.

Il veterano era tranquillo, sicuro e dallo sguardo basso. Afferrai da subito il suo senso. Tra gli innumerevoli modi fittizi e parziali in cui l'umanità si può suddividere, vi è anche quella, esposta dal fotografo in modo inconsciamente ammirevole, di coloro ai quali piace solo il lavorar sodo, coloro i quali lavorano per qualcos'altro che l'esibizione, e che forse lo fanno solo a rare dosi, dopo mesi e anni d'estenuante (è il caso di dirlo) esercizio. Parossistico se non nobile per un'attività fisica che è esso stesso esibizione pura (e lavoro per l'esibizione stessa). “Ho iniziato col body-building professionale da quando le ragazze si giravano a guardarmi in strada” (forse perché è esagerato?). Il nero seduto lo guarda soddisfatto. Non vi è disprezzo, né, in fondo, stima, ma partecipazione e empatia. A lui interessa solo rimetter su pesi su quella panca, e sollevare, per l'ennesimo giorno nel medesimo modo, quei chili, pensando allo shake iperproteico che lo aspetta. Il doping rappresenta addirittura l'esporsi (assurdo e ingiustificabile) alla morte piuttosto che al vivere, che al continuare ad esporsi allo sguardo degli altri. In quella sproporzione innaturale cacoestetica e masochistica c'è un paradosso poetico, egli potrebbe essere un'autodistruttiva biografia dell'inutilità del lavoro e della gratuità dello sforzo: e ciò, perché è camuffata sotto il suo esatto contrario, la fierezza, l'abbondanza, il narcisismo, perché il loro eccesso del body-building professionista offre ispirazione. Il body-builder offre ben di più che il banale farsi opera d'arte degli studenti delle Università e dei riferimenti colti dei professori: esso mostra . Colui che saprà a malapena scrivere il numero delle serie allo squat, passa le sue giornate a lavorare per nulla in fondo, colluso con la morte: a lui interessa tornare a sollevare i manubri per un tempo in fondo breve, tornare a casa sapendo che domani dovrà costruirlo di più. E il body-builder conosce il suo tragico: verrà giudicato su un criterio estetico, non di performance (dei chili sollevati): il suo risultato non è mai direttamente il suo lavoro.

Già me lo vedo, quando rimette il suo zaino in spalla, dopo una gara, lievemente contento per averla vinta, decisamente preso dal programma della settimana successiva.
Già me lo vedo, uno spettro in famiglia, con in testa solo il su e giù del bilanciere, e il suo ricordo soddisfatto, mentre, perdutamente, si immischia ancor più in affari con la più stupida e deleteria (e illegale) delle fini, che gli scorre nelle vene sotto forme di testosterone esogeno; uno spettro nel bar con gli amici, che aspetta solo l'ora cadenzata ogni tre, per nutrirsi adeguatamente, per essere più pronto la volta seguente - novello Sisifo, ricominciante ogni giorno l'assurdo compito di spostare pezzi di ferro, e cui la scienza del guadagno fisico (intelligenza nel non-senso), spinta alla più alta modestia, non concede neppure il nuovo slancio del vivere sociale, imperniato di ormoni in esubero ed atrofizzato nella sua virilità, nei suoi testicoli.

O quanta tristezza grandiosa!

Spesso all'Università ci si accontenta di così poco. E lo si fa nel modo ben più sordido: nella rassicurante tronfiezza del concetto. Che, si ben si vedesse, sarebbe il primo a crollare sotto la sferza del lavoro interminabile e insensato del body-builder, lavoro per sé che in un breve istante spezza, esibendosi, l'ordine delle cose. "Ce qui est fait, reste à faire" (V. Jankélévitch)

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Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006