
Non la decifrazione analitica ma il rilancio verso un presente gravido di possibilità: questa la psicologia, questo il senso della pietà per l'uomo, per i suoi errori, che ha luogo nell'evocazione con i ricordi e continua con la coscienza dell'impossibilità di uscire dall'esistenza – concepita come impasse, come errore, ma allo stesso tempo come una marcia di compromessi in cui solo l'affetto, dal momento in cui tutto è sbagliato, può scompaginare, in momenti teneri, il corso del destino.
La lezione che potrebbe trarne un cineasta potrebbe essere: plot semplice, bellezza di scrittura, tensione esistenziale di pochi personaggi, pochi luoghi, scelte che sigillano un'esistenza, senso di essa nei gesti e che emersione di essa nei dialoghi (e nella gestualità di essa). Sembrano escamotages teatrali, ma in realtà i cambi di riprese sono dei tuffi nei tratti dei personaggi, e evidenziatori del risalto dei gesti.
Marianne non ha mai risposte al suo essere lì (“sentivo che mi chiamavi” dice al marito nel finale, “ma io non ti ho chiamato”, le risponde lui). È lì come se fosse una necessità, un bisogno, ma non rispetto alla sua personalità, rispetto a un senso da costruire. Il segreto è che il suo porsi rispetto agli altri non è mai autoritario o personale, è fatto di una saggezza che viene dalla pietà verso Johan et la famiglia – una pietà che non è commiserazione, ma fiducia, la quale è il credo stesso di Bergman verso il mondo di coppia e la vecchiaia:
"Al di là di ogni cosa esiste la pietà, e la comprensione. Forse è ancora possibile curare le nostre ferite, vivere ciò che resta e volerci bene. Io non farò più niente che possa cancellarti dalla mia vita... ho ancora fiducia" (da I. Bergman, Sinfonia d'autunno utlima scena).
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