Friday, November 30, 2012

TRIZ between creativity and contradictions.

TRIZ is the russian acronym for Theory of inventive problem solving (or solving inventive problems, which is the same for the russian  теория решения изобретательских задач), based on the originary algorythm (ARIZ) created in the 50s by G. Altshuller. The theory allows to every science field to "transplant" their methods on this algorithm.
TRIZ was born initially for inventions, and used by engeneers. Altshuller examinated many inventions patented in soviet industries, and observed how they were done out of the knowledges in applicated sciences of their time. After that, he tried to build an algorythm in order to develop the creativity to solve inventive problems, or (which is the same) in order to solve with invention the problems.


After its application in Design, Architectures, Economy and Project Management, the actual ambitions of TRIZ are concerning the proceeds of research in every fields (Health, Physics, Social...). Far from a neutrality, the jump from invention (making, building) to discovery put many questions of creativity and in general its individual method - without considering necessary the "social" necessity of creativity, like in management of entreprise and even in the community of intellectuals. In other words, even if it could be redacted with several people, TRIZ points out most of all the problem of the method of creativity (or in general the full development of a creative person), here associated with the "invention", which has to do with the production of something new starting from a problem.


S.D. Savransky, Engineering of creativity. TRIZ, New York, CRC, 2000, p. 7.

According to this theory, every problem can proceed in 360 degrees direction. Facing a problem, we are free to move in every sense. But the solution (which has to be always postulated as possible) lays somewhere, very probably out of the actual knowledges, but in the order of faisable. This theory leaves the scientist/engeneer held tight between the limits of his concrete situation (with its restrictions and its necessity) and the laws of Nature, by finding a so-called "contradiction" who has to be got over. The interest in this theory is its qualitative side: every steps here is written in words, and not in numbers, for the first (Initial situation /undesirable effects), and second step (problem /technical contradiction), at least until the Ideal Final Result (the fourth step is the physical solution, and finally the last is the engineerign solution), this kind of platonic idea there out of realization since the beginning, but which one can't really understand.

The contradiction is the most relevant moment of TRIZ. There is no TRIZ without searching the contradictions of the system one takes into account. But contradiction is the wrong name. "Contradiction" means in logics A = not-A. In TRIZ, it doesn't seem possible to solve an ontological contradiction. "Contradiction" is in this case, and from a logical point of view, the contrary. Contradiction is a general word for understanding what could be impossible to realize.




Just to take an exemple: if I want to create a new powerful and ecological LCD-screen, I could think about the limite of the number of set of lamps for one the size I'm considering (limits of situation), and the limits of energetic power for a set of lamps (limits of nature). Here I have to formulate the contradiction by explaining, by words (always really easy terms), my constraints.
From D. Kucharavy Slides, November 2012.
Starting from now, there's an artificial work on the vocabulary, and, most of all, a permanent work of revision of the system. Here I have to formulate the function of the system, then the anti-system function, before doing the feature of your system function. But if you cannot find the solution by your words, you have to develop synonyms and antonyms: it's a very semantical formal moment, that let you think in a different and qualitative point of view.

So, because the contradiction is the contrary, the contradiction in its proper meaning can't be solved: if a contradiction will be presented, there will be no solution (which activates the round systamatic revision). So, the meaning of the contrary is to avoid a real contradiction. The invention avoids the capital difficulty, the highest risk of all aporia, the real contradiction, like the one between the thinkable and the not thinkable, the ideal and the not-ideal.
From this point of view, there's no possibility for TRIZ, and for every theory for engeeners who wants to convey creativity into an algorythm of production: because is just facing the contradiction without artificial means of revision or reformulation, that one has to transform himself and his convictions, in order to really invent a discovery, to really think metephoracally and not with a list of synonyms, and interrupt the format given from the material object. The laws of Nature are written nowhere, and the situation is the one we are contributing to live.
In the end, TRIZ remains a kind of inventive reactionnary theory, which opens real problems and perspectives about the limits of an absolute creativity. Here we have to think the limits of research, management of knowledges and production, and material inventions.




Friday, October 05, 2012

Bibliothèque du Pôle Européen de Gestion et d'Economie.


Sono seduto, e leggo una poesia di Rilke. Ci sono altre persone sedute accanto a me che stanno leggendo, e che come me non si fanno sentire. Fa bene restare così, con persone che leggono, perché non sono, né saranno, sempre così. Non è possibile che tutti costoro stiano leggendo delle poesie, perché la storia non ha mai dato natali a 300 poeti, e perché ci sono poche probabilità che i fruitori di questa biblioteca stiano leggendo un settore così di nicchia. La biblioteca non contiene opere di poesia, e ci sono poche possibilità che costoro, come me, abbiano portato un libro di poesie da casa. Dio sa cosa hanno. Io, uno straniero a tutto tondo qui nel Polo Europeo - io sto leggendo una poesia di Rilke. 

Con tutte le persone perdute tra i fogli, in questa biblioteca si respira una rilassatezza particolare, certamente una non tenuta da un lettore abituale delle opere di Rilke. Se non c'è poesia, ci sono però molti titoli allusivi, riguardanti ad esempio la "Conoscenze creatrice" oppure le "ricerche per lo sviluppo della risorsa umana". Ma in ognuno di questi si manifesta, piuttosto che non si nasconde, una strategia di controllo di ciò che alla fine sarà il prodotto finale, ciò che si renderà disponibile all'uso dei consumatori. Il prodotto è rassurant, non è  mai l' "inizio dell'orribile", e cioè "il bello", l'angelo che custodisce il fluire del fiume sui cui due bordi si specchiano i vivi e i morti. La poesia di Rilke, nell'economia spesso angusta del suo metro, non è trasformabile in un programma di vendita, per quanto possa sembrare qualitativo. Se essa non sarà mai un prodotto, è perché le sue ellissi non passeranno al vaglio di una pianificazione, ma saranno necessarie a sviluppare un sistema di alterità semantiche in cui il lettore è invitato meno a prendere le misure che a disperdersi.

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Nonostante stia passando, surrettiziamente forse, dal rinnovamento dell'esistenza all'innovazione della tecnologia, dalla teoria del bisogno alla teoria dell'esigenza (la creazione del bisogno), quello di "prodotto" è il termine ideologico più ostico per me oggi. Si tratta d'un pensiero poco raffinato, riconducente alla materialità, uso e funzionalità dell'oggetto (proprio del pensiero economico e ingegneristico). Se si vuol credere al "materialismo", come si sente dire, della nostra epoca, è perché si pensa al frutto del lavoro come un "prodotto", che ordina persino i prodotti dell'intelletto o dell'emozione a questa realtà fisica e tangibile (e le fasi intermedie di realizzazione d'un progetto a delle "consegne"). Quello di "prodotto" implica un brutale contro-capovolgimento, il ritorno ad un pensiero orientato a partire non solo della tangibilità d'un oggetto che determina la sua creazione, dall'aderenza al particolare, a tal prodotto, marchiato e glorioso di essere disponibile e desiderabile per ogni acquirente reale e, come voleva il taylor-fordismo, potenziale.

Oltre ad essere per me una deterritorializzazione dolorosa (potrei persino dire che è la più eccessiva, perché forse è quella che mi costringe a pensarla, almeno oggi, nel quadro irrisolto del giusto o dello sbagliato, o persino una deterritorializzazione che è forse sempre al di qua, sempre disponibile, sempre presente, sempre uguale a sé), esso ordina il lavoro anche la maggior parte dalle forze intellettuali nell'economia. La nozione di prodotto è prodotta come un sottoprodotto del prodotto: l'ordinamento per il fine della struttura produttiva e della massimalizzazione dei guadagni si basa sull'offerta di prodotti, che creano (secondo una legge) ex-nihilo una domanda dei consumatori, che si tratta di trasformare in rentable. L'intera specializzazione della società, e qui non sono esenti quelle classi astratte o sociali quali l'insegnamento, offre ad una domanda soggiacente un prodotto, che ne determina il prezzo, il valore e la quantità, il cui tentativo è di aumentare la domanda e di ridurre l'offerta al fine da ottimizzarne i costi.

Quando ho a che fare col prodotto, per quanto esso sia innovativo, due sono le cose che davvero mi riescono difficili da seguire, e forse parzialmente impossibili da eseguire: innanzitutto la sua particolarità, questo riflesso d'un aspetto limitatissimo della società (che pure ha un senso, e che contribuisce al benessere della società proprio in ragione della complessità e diversità del prodotto stesso), secondariamente la sua auto-referenza, e cioè il condensare, nella sua materialità (fosse essa anche un'entità più astratta come un sito che raccoglie le idee degli internauti), il fatto che, garantendo una messa a punto ingegneristica, gestionale e persino creativa, ci si raccoglie tutta intorno ad essa, al suo essere un prodotto individuabile e chiuso nei limiti della proprietà (industriale ed intellettuale). La particolarità e l'auto-referenzialità, oltre che produrre l'Angelo Nuovo del progresso (W. Benjamin), e letteralmente far funzionare il mondo almeno fino ad una catastrofe, preparano il prodotto alla vendita, che garantisce la sopravvivenza dei venditori rendendoli essi stessi compratori d'altri prodotti. Dietro ogni prodotto c'è la sussistenza e la ricchezza, la quale è la sussistenza dei propri mezzi di sostentamento.

Da qui il problema di cernere questo spaesamento, questa sofferenza nel linguaggio, il dolore della deterritorializzazione, che è visibile nei passaggi che l'economia effettua tra "gestire", poi "to manage", e finalmente "manipolare" (anticamera di "occultare"). In questa situazione tutto sommato comprensibile, con pochi equivoci, è forse doveroso, o anche solo possibile, pensare di esprimersi - è possibile fare questo tragitto, approdare in un porto insicuro proprio per la sua eccessiva sicurezza? L'alterità economico-gestionale, che pure è altra rispetto a ciò che conosco, con che criteri mi sembra però non-altra, ma già conosciuta fin nel profondo della sua essenza, complessificazione di dinamiche inevitabili ma che ho sempre tentato di superare? Ma esiste allora un punto di rottura, oppure, in fondo non può esistere una rottura nella storia, ché essa altrimenti sarebbe incomprensibile?
E inoltre: è possibile pensare un'alterità non estetica, non trasfigurata, non pensante, ma un'alterità elaborata, "maneggiata", o in questo caso si tratta solo della semplice-presenza, della disponibilità, come la nozione di prodotto sembra impormi? Oppure la gestione delle fasi del prodotto, permettendomi di essere utile, sentirmi utile, e in qualche modo agire per altrui in maniera modesta e limitatissima, proprio nell'ambito dell'utile restando in una dinamica sociale fruttuosa, potrà finalmente rischiarare i bui della mia vita, concedendomi sprazzi chiarissimi da percorrere?

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Nel frattempo, è sera, e sono molto stanco dopo un'esercitazione di "simulazione di produzione". In questa mezz'ora ho solo sfogliato le poesie di Rilke, ne ho letto solo dei brani con la giusta attenzione, poi ho scritto queste righe, mentre anche gli altri utenti della Biblioteca, come me, vanno e vengono, aprendo libri affiancati da portatili, e poi richiudendo entrambi al momento di volgere via. Confido nel week-end, nel tempo in cui dovrò ora mantenermi saldamente presso di me, affinché i dubbi possano inspessirsi, o srotolarsi naturalmente.

Thursday, June 21, 2012

La fête de la musique (ovvero: sulle impasse di fronte alla necessità di strategie di promozione dei propri scritti)

Non sarei a scrivere queste righe se la festa della musica non mi impedisse di andare a dormire. Il 21 giugno in Francia il giorno più lungo sembra essere preso in senso proprio: si tratta infatti della notte più lunga, e quindi di conseguenza del "giorno" inteso in senso pieno.
Per ammazzare il tempo, procederei a ritroso nello scrivere di questo solstizio, che in qualche modo val la pena di essere raccontato; nel frattempo, rendendomi conto che ho molto sonno, lascio la finestra spalancata. Mentre una musica da dj set non meglio definita pervade fresca l'aria stantia del dentro, mi osservo in canottiera, bianca con sottilissime righe rosse e nere, pantoloncini da sport blu scuri, e ciabatte, anch'esse blu scure, modello da piscina. La casa è piuttosto sporca, faccio il minimo indispensabile. Eppure il mio corpo allo specchio è in pienissima forma. Mi metto in tre quarti sullo specchio intero, il quale, essendo leggermente poggiato sul suolo inclinato, che aumenta l'effetto chiaro-scuro sulle spalle e le braccia, e mi fa apparire in qualche modo migliore. Mi riaffaccio fuori e osservo giovani e giovanissimi che si divertono. Un fugace pensiero mi porta tra di loro, ma subito scompare, e poi quasi a rettificarsi si riconduce vano sullo specchio.

Ho appena finito di leggere "Il naso" di Gogol e non ho ancora voglia di cominciare "La prospettiva Nevskij", perché sono troppo poco incline al sorriso.
Poco prima, durante la cena ho fatto in tempo a vedere il bel gol di testa di Cristiano Ronaldo, nel quarto di finale Portogallo- Repubblica Ceca.
E ancora poco prima ho terminato di vedere, il sesto e ultimo episodio di una serie inglese fedele a Jane Austen's Pride and Prejudice, trasmesso su Arte. Ero molto vicino al commuovermi quando scoprii che Mister Darcy aveva pensato a tutto per il matrimonio tra Lydia e Mister Forster, a causa dell'amore che provava per la sorella di lei, Lizzy (Elizabeth): il suo nobil scopo era di far cessare al più presto le voci maligne sulla famiglia di lei al momento della fuga di Lydia con l'amante, anche a costo di perdere l'amata Elizabeth Bennet, che avrebbe potuto interpretare questo gesto in tutt'altra maniera (essendo Mister Forster un personaggio particolare che però la leggera Lydia amava a suo modo).
Poco prima ho parlato con il mio primo lettore del mio lavoro sul fondamento. I sentimenti sono sempre contrastanti su di esso. Innanzitutto esso, essendo il fantasma dell'appropriazione della teoria, è anche "poco seducente", anzi è il simbolo dell'invendibilità stessa di un concetto. Ma il compito fu più erculeo o più sisifeo? In ogni caso, quello che conta, sembra, è quello di essere più pedagogico e meno allusivo; e fare soprattutto ad ogni capitolo una ricapitolazione di quello che si è detto e pure di ciò che si dovrà dire. Non è molto interessante parlare di questo. Eppure la filosofia non dovrebbe mostrare degli argomenti, come fossero un cammino, persino ben tracciato, tuttavia non ancora percorso, né nella meta né in tale sinuosità, temibile appunto perché ci sfida - strappo alla stratificazione della trama del senso.
L'esperienza cruciale è stata forse mentre tornavo da tale primo lettore. Nel frangente dei minuti che mi separavano da casa. Sentivo, in bicicletta, la pioggia bagnarmi le ginocchia mentre provavo a chiarire, non riuscendoci, il sentimento avuto poco prima. Gli strascichi parevano consumarmi ad ogni pedalata, come se abbandonassi, nell'avanzare, delle parti dietro di me, come se si srotolasse il filo della serenità nel tornare a casa.
Ho avvertito la mancanza di parole, che era in realtà la mancanza esatta di senso. Tale assenza, riesco solo ora ad evocarla, ora che mi sento solo, staccato dalla festa del solstizio, come un onomastico qualunque.
Vi era come un'esposizione alle vita che necessitava di prendere il sopravvento, e che aveva poco bisogno di riflessione. Che bisognava aggrapparsi più alla società che ad una resistenza anomica coraggiosa. Soprattutto, questo mi è sembrato prodromo non tanto alla socievolezza che rimbomba dal teatro aperto che è la città durante festa della musica, ma, in questo movimento di uscita se non di strappo al frivolo, prodromo alla ricerca immediata di quella socialità impegnata che fu per me e così a lungo assente, irriducibilmente. L'afasia è forse stata un desiderio di normalizzazione...?
E cosi, prima di scrivere queste sparute righe: la navigazione nei ricchi e ordinati siti internet di aziende, o di progettistica per aziende, perché questo è il mondo a cui sono destinato. Mi turbarono molto. Il mio futuro è destinato a ruzzolare sulla patina. Tutto nelle aziende richiama il vendere, il fare-meglio facendolo sembrare ancora meglio. Io non sono capace di far la promozione dei miei argomenti filosofici, e ancor meno di fare sembrare un prodotto da non-promuovere promuovibile, falsamente necessario. Perché la filosofia non è necessaria per vivere, e qualunque filosofo ne è conscio. Le risorse imponenti delle aziende, la carucceria, hanno completamente annientato la mia psiche per molti angosciosi minuti. Senza che ci fosse nulla di strano in apparenza - ed anzi, c'è quasi una generosità verso il cliente: il layout è chiaro e stimolante, come un argomento dovrebbe esserlo. Ma la patina, gli spazi, cosi come i favori al lettore, sono densi e perfino mostruosi nel volere creare delle zone d'ordine organizzate; nel mettere in gioco così tante opportunità da cogliere, che il non coglierle sembrerebbe una sgarbatezza. Nel prendere per la mano il lettore, c'è un invito a prevaricarlo, una volontà non filosofica, perché non è un'esigenza del pensiero. Ma, soprattutto, in tutto c'è appunto il vendere e il comprare, l'accettare e il rifiutare, in un mondo che si mostra solido e che saprà comunque andrà avanti...

Sunday, April 29, 2012

Il Barcellona di Guardiola.

Pep Guardiola se va del Barça

Il Barcellona di Guardiola (l'allenatore che, stanco e perfino demotivato dopo tanti trionfi con la squadra di calcio più forte di tutti di tempi, ha rinunciato venerdì scorso a rinnovare il suo contratto con il club) ha rappresentato più di un'esperienza calcistica: ridefinendo il gioco del calcio, esso ridefinisce anche il calcio come più di un gioco, come un'esperienza di pensiero tanto nella tattica quanto nell'azione - questo in quanto il pensiero si fa una pratica agonistica e creativa, e non una complicazione dogmatica e complessa.

Il gioco del Barcellona è infatti costituito da un estenuante possesso palla e da un aggressivo pressing offensivo. Il Barcellona non punta sulle capacità atleta, ma su quelle del pallone (senza di cui non c'è il calcio), che può spingersi sempre ad una velocità superiore a quella del giocatore. Che "il nostro centravanti è lo spazio creato dal gioco", significa che, tramite il possesso palla, chiunque può assumere il ruolo di centravanti, se servito a dovere nello spazio creatosi dall'incessante "torello" a ridosso dell'area di rigore. La sfida di Guardiola è quella di portare in campo praticamente solo "centrocampisti", vale a dire i giocatori atti a controllare meglio il pallone, senza attaccanti né difensori, Messi eccettuando. Con una simile direzione, al primo violino non resta altro che agire a suo modo nello spazio, e solo dopo aver partecipato della creazione del gioco. Il genio prende su di sé la squadra al momento in cui un assolo è assecondato: non si tratta quindi di smussare una serie di primi della classe, ma di farli ugualmente partecipare al genio assoluto di uno solo. Infatti, il Barcellona in campo sembra meno un'orchestra che un segreto organismo vivente al microscopio, cui le cellule si muovano all'unisono, creativamente e imprevedibilmente, verso un unico fine. La cantera, il vivaio catalano, non è dunque un luogo in cui far crescere talenti, ma una filosofia di approccio agonistico in quanto ripetizione differita di quanto appreso. La dimensione sportiva può dunque ritrovare facilmente la mentalità sana dalla quale è nata, poiché prosegue il principio di creazione del proprio approccio, piuttosto che demolire quello dell'altro (che ne risulta da sé distrutto). Il calcio si approssima alla corsa o al nuoto, in cui il contatto si minimizza e la sfida diventa una questione di punti.
E' per questo che le sconfitte del Barcellona sono così difficili da capire e da sopportare. Perché sono ingiuste, l'avversario essendo stato schiacciato; ma anche perfette, perché quest'ultimo ha saputo concretizzare le rarissime occasioni (come contro il Real Madrid e il Chelsea negli ultimi giorni) come fosse un gioco ancora più semplice di quello catalano.

Per aver ridefinito non le regole del calcio, ma il concetto stesso di calcio come "gioco", e averlo reso un'esperienza di pensiero tanto nella tattica quanto nell'azione (la squadra deve pensare più rapidamente, avere pazienza, accelerare d'improvviso e difendere appena la palla è perduta), Guardiola ha rinunciato a portare avanti la sua direzione tecnica: richiedendo essa una sovra-motivazione, un sovra-desiderio, al fine da diffonderlo alla squadra che per il suo gioco essenziale e creativo ha bisogno di incentivi più ampi che quelli del goal.

Sunday, April 15, 2012

La filosofia e la scrittura in versi: accenno di introspezione.

Quest'immagine da backstage di Fellini e Mastroianni (vestiti a chiasma) sulla spiaggia
romana del finale di La Dolce Vita ben rappresenta il momento mio
attuale: ciò che guardano l'attore e il regista, ciò che attendono fuori campo (il fuori
campo d'un backstage), è pure la fine del film,
che è poi il mostro marino adagiato sulla riva, invisibile alla foto
a questo blog.
Sono stato, nella ricerca universitaria in una disciplina umanistica, la cavia di me stesso. Topo e sperimentatore si sono confusi e alternati. Ora mi tocca spingermi ancora più lontano, bisogna vivere la fondazione (e le sue interruzioni) e questo non può aspettare né i post-doc né i ritorni di lettura. La cavia-ricercatore deve sopravvivere ai propri esperimenti: la propria stessa ricerca deve mostrare la sua fecondità, la sua riuscita, la sua ideazione incarnata.

Negli ultimi mesi seguiti alla fine della dissertazione sul fondamento nella fenomenologia, le difficoltà che avevo nella lettura di testi filosofici non ha fatto altro che acutizzarsi, fino a tingersi di amatorialità. Ho continuato a seguire e ad interessarmi vagamente alla filosofia, ma in maniera sporadica, dialogica piuttosto che scritta e, sebbene continui ancora a sentirmi a mio agio nel pensiero del "concetto" più che in ogni altra branca del conoscere e forse anche del vivere, ho tuttavia dovuto allontanarmi da essa. Spesso ritorno sui miei passi, aggiungo note di ri-lettura o di aggiunta al già fatto in un file separato, ma devo ammettere che è la poesia ora a raccogliere le mie giornate e, soprattutto, a rinnovare la mia passione.
Perché questo richiede delle riflessioni scritte? Non dovrei lasciare libero corso alla mia volontà, ora che, in stasi esistenziale, ne ho l'occasione? In realtà, lungamente, pazientemente, criticamente, sono giunto ad una soglia che non oso superare: ciò che ho fatto, in qualche modo mi ha modificato. E di questo devo essere la misura. Anche se essa si rivelasse immaginaria o irreale, anche se essa non facesse che confermare un dettame inconscio o peggio i presupposti, le fisime perfino, i "caratteri soggettivi" da cui sono partito, non comprometterebbe la riuscita dell'operazione che, di diritto, urge da sé e per sé.

Ho lottato contro il dogmatismo, ovvero contro la tendenza all'identificazione della mia pratica di pensiero con un'altra pratica già costituita, la quale si sedimenta massimamente con il programma di un autore. Questa lotta è stata, credo, assoluta, e mi si potrebbe benissimo rimproverare di essere stato quasi testardo nell'averla perseguita su tutti i fronti, compresa la comprensione del mio stesso argomento. Ma quest'opinione sarebbe puramente sanitaria (riguardante la mia salute mentale), perché credo, attraverso un approfondimento senza sconti di un tema difficilissimo e aporetico, di essere riuscito nell'intento di aver operato una critica immanente del fenomeno di "fenomeno". Ho combattuto, e mi è costata fatica, insonnia e palpitazioni notturne, nell'aporia, ma non potevo lottare da un altro luogo che dall'interno: era l'unico che mi permetteva di sentirmi nel luogo ideale non solo, certo, per sbloccare qualcosa nel dialogo filosofico contemporaneo, per pungere ironicamente le opposte e risibili fazioni, ma anche per non darmi appiglio nel già-detto come luogo di stratificazione del senso come della significanza. Alla redite, ho preferito la refonte du Dire. La ragione fenomenologica infine deformalizzata, il concetto non essendo più che un'entità liminare, mi è parso di essermi situato all'interno di un contesto in cui si trattava certo non già di non continuare a pensare attraverso il concetto, ma di pensare che il concetto dice anzitutto un non-concettuale, in cui il concetto è un nome per una dinamica del sentire, di un "devi cambiare la tua vita", come dice l'ultimissima citazione di Rilke che chiude il mio lavoro, che rimette in gioco interamente la mia tesi se rientrasse solo nell'ottica di una "visione" particolare. Ma appunto questo passaggio è sussunto dalla mia posizione.

La scrittura in versi ha inizialmente costituito per me ciò che per un animale domestico costituisce la distanza attraverso cui guardare con circospezione il mondo dell'uomo. In fondo sono troppo disadattato e asociale per trovare altrimenti la compensazione ai miei sforzi. La scrittura in versi mi ha appagato in questa difficoltà, è stata davvero un alibi troppo forte per cambiare, appunto perché essa richiede uno sforzo inappagato di essere incluso verso altrui, richiede una domanda ininterrotta del perché scrivere. La filosofia accademica non me lo ha permesso, malgrado tutti gli sforzi di "essere originale mio malgrado", di decostruire con senno. Malgrado la strenua lotta al dogmatismo mi abbia formato, la filosofia non ha permesso di liberarsi dal commentario, dall'apologia e dalla critica. La filosofia non mi ha permesso la libertà di espressione, se si intende per essa non tanto la volontà di esprimermi senza freni (questo blog non avrebbe infatti allora assolto già più questo compito?), ma piuttosto "l'intima necessità" di fare sì che ciò che si dica sia sentito come massimamente libero.

In questa libertà siede infatti il mio mondo. La scrittura in versi è stata il modo in cui ho potuto indagare  i concetti con cui esprimo il reale, con il reale che esprimone: un pensiero incarnato fino alla controprova. In questo modo la frase di F. Ponge: "sii virtuoso, e scriverai dei bei versi", ha operato in me anzitutto come freno a qualunque velleità. La scrittura, la composizione dell'opera in versi (non ancora ultimata, se mai ultimabile), un'eventuale pubblicazione (che è parte integrante del processo di scrittura, come un "rendere pubblico"), sono quelle che per prime mi hanno già fatto perdere velleità di essere "poeta". Perché non c'è la poesia come struttura di scrittura, come altro dalla vita, e nemmeno come identica alla vita: essa è umilmente per me un aiuto all'evento, al suo mostrarsi, un divenire-evento dell'evento. La lotta contro il concetto, contro la teoresi, l'astrazione, è qui perseguita nella lotta contro il "verso migliore", contro l'astrazione simbolica, contro l'intellettualizzazione senza posta in gioco. L'economia linguistica del verso è stata allora l'economia dell'evento della mia vita e del mio immaginario, alla prova e in misura dei miei pensieri.
Conservo la speranza, ed è giusto che ne scriva oggi in cui nessun progetto si è ancora formalmente finalizzato, di poter produrre anche dell'altro che della filosofia o della scarna scrittura in versi. Forse con essi, parte della mia esperienza sarà non tanto fissata (il che sarebbe contraddittorio con l'esperire stesso), ma proprio... esperita.

Saturday, April 07, 2012

Il senso del nudo nella fotografia di Helmut Newton.



Nella fotografia di moda di Helmut Newton, ogni scatto (il fotografo, ad ogni sessione, ne era già parchissimo) riprende una totalità del fotografato certo "in posa", ma in quanto tale essere "in posa" non sembra essere ciò che conta nella sua recezione.
Essa è libera innanzitutto perché non è ritoccata, non è alterata nella post-produzione.
La sobria classicità esalta le forme nel senso della sua estetica al di là del "corpo", dell'oggetto rappresentato. "Un buono scatto di moda deve assomigliare a tutto, eccetto ad una fotografia di moda. A un ritratto, a una foto-ricordo, a una foto di paparazzi" (1995).
L'ordine interno della foto di moda secondo Newton non mostra nulla; ma se attira la curiosità lo fa spostando lo sguardo sull'estetica tra la classicità (la forma della bellezza delle modelle) e il cattivo gusto, vero domino interno e rivelatore della non-moda delle foto di moda.

La nudità è in questo caso il contrassegno di questo spostamento di attenzione che al fruitore non è richiesto, ma è proprio necessario per guardare la nudità stessa, che appunto non è tale perché mostra ciò che altrove non si riuscirebbe a vedere (le splendide modelle, le loro forme nascoste al sole, e le pose spesso in accostamenti originali), ma perché richiede l'interezza della loro persona. Le foto mancano di dettaglia perché è la mancanza del dettaglio che è da ricercarsi attraverso un movimento dello sguardo. La loro nudità richiede quasi tale spostamento, tale ricchezza del dettaglio da ricercarsi e non da afferrarsi - , ciò che sfugge alla posa.
Questo è forse un modo di interpretare la sua foto forse più famosa e più po(i)etica (nel senso del proprio modo di fare arte), qui sotto: la dinamica interna dell'immagine si ritrova interamente nella fotografia, sebbene tutto al suo interno voglia indicarci l'esclusione di essa su diversi livelli di realtà (la finestra, la moglie che osserva, il fotografo, lo specchio...). Ma la fotografia resta l'ultimo piano poiché l'unico, quello che vediamo e che ci permette di scorrere in questo caso sui diversi piani fittizi. La modella in sé che non è che l'impulso primo allo scorrere dello sguardo nella sobrietà e tuttavia prodigalità di ciò a cui dobbiamo andare incontro nel percorso anarchico di questo scatto.







Thursday, April 05, 2012

Arbeitslos

Esiste un passaggio verso le cose e verso gli altri? Granitici, i pensieri potranno mai liberarsi del peso della loro gratuità, sollevarsi come smossi da un impetuoso vento per lasciar scoprire finalmente che sotto di essi stillava una fonte segreta di desiderio?

Caravaggio - Vocazione di San Matteo
Mi pongo queste domande nel mezzogiorno, ora che non ho lavoro, ora che tento unicamente di arpionare la mia scrittura ad una sincerità ritrovata che le permetta d'involarsi, almeno intenzionalmente, via dall'artificio, in quanto nulla ho da perdere, perché non ho nessuna prospettiva di reintegrazione sociale.
Mi sembra tuttavia che io non trovi che del vuoto, ma un vuoto sociale, una necessità stringente di buttarmi a capofitto nel mondo, tra le braccia della prima capace d'estetizzare il mio sguardo con forme fisiche e approcci al mondo diversi da quelli a cui sono abituato; o nel ritmo forsennato d'un lavoro che non mi lasci riposo, che mi stremi di fatica al punto da non voler altro che non pensare, da non pensare ad altro che mi sono buttato alle spalle gli anni di formazione una volta per tutte e che ho chiuso il cerchio con il regno dei fini del pensiero, nonostante o in virtù questa somatizzazione delle idee, dei concetti, degli stile e dei versi che ha costituito la libertà vissuta della mia riflessione, la mia introversione, la mia poca immediatezza quando giunge sera e più forte dovrebbe avvertirsi, tramite quella stanchezza che è l'essere nel giusto, che è il tanto da me odiato compiacimento di sé (forma inconscia dell'amour-propre), una socialità senza briglie.

Una scelta, se mai ce ne fosse bisogno, pare in questi casi di incrinatura della personalità, sempre fondata su una dicotomia: seguire il corpo e cercare una nuova vita, preambolo ad un nuovo grande amore, ad una nuova attesa, che non passi più per il filtro mentale ma che sia (come dire?) a prova di ripresa intellettuale, accaduto e ultimato all'interno stesso del rapporto con l'altro; provare, ancora con il mezzo della scrittura, a sublimare o a cavalcare questa nuova onda al fine da incrementarla e sfruttarne, direi, ancora di più le risorse, a discapito d'un certa ingenuità e d'un centellinamento delle esperienze che per forza si attua.

Sunday, March 11, 2012

Questo sabato sera.

Mary Henderson - Boat 2011

“[...] Perché non siamo tutti come fratelli? Perché perfino l'uomo migliore sembra sempre nascondere qualcosa all'altro, o tace? Perché non dire subito con sincerità ciò che si ha nel cuore quando si sa che la tua parola non sarà gettata al vento? [...]”
“Ah, Nasten'ka! Voi dite il vero, ciò accade per molte ragioni” aggiunsi. E in quel momento, più che mai, soffocavo i miei veri sentimenti.

F. Dostoevskij, Le notti bianche.


Pornografia, video-giochi, sport, lettura, scrittura: tutte attività solitarie, che si rapportano agli altri in modo più o meno tangente, in modo più o meno immediato, in modo più o meno gratificante.

Ho assaporato l'idea oggi di affrontare il mondo, di uscire di casa questa sera solo come un cane. Non per incontrare le persone che mi sono già care. Le amo ma non ho bisogno di loro in questo momento, non devono neanche frapporsi al pensiero di questo progetto e farmi impiegare in una solitudine a due o più.
Non vorrei passeggiare lungo il fiume, né conservare alibi. Ho bisogno di poter girovagare per le strade della città non come fossero ramificati corridoi di casa, ma come un luogo estraneo in cui far sbocciare la voglia inesausta di confronto; ho bisogno di potermi introdurre in un bar non come fossi tra una cerchia d'amici fidati o venturi, ma come piombassi tra anonimi al fine di lasciare nel bicchiere tanto la mia usata socievolezza e tanto una nuova inusitata asocialità. Sconosciuto tra sconosciuti, avrei voluto stasera bruciare della speranza d'una non-conoscenza: avrei voluto sorprendermi di ritornare a casa solo, di questa possibilità certa venuta a tarparmi nella mia espansione nel vuoto dell'Altro e nel sabato, Suo territorio incontaminato e lontanissimo.



Wednesday, February 22, 2012

Celui qui n'a pas vécu les années avant la Révolution, ne connaît pas la douceur de vivre

Rosie Hardy's "Outcasted"
"Ecco perché spesso vediamo diventare folli coloro che si sono trovati nella condizione di esercitare questo diritto degli dèi [la libertà]: afferrati dalla follia e dall'arbitrio, cercano di affermare la libertà con azioni alle quali manca ogni impronta di necessità interiore e che per tale motivo sono le più contingenti. La necessità è l'intimo della libertà. E' per questo che non si può dar ragione dell'azione veramente libera: essa è così perché è così, puramente e semplicemente, è incondizionata e perciò necessaria. Ma, in quanto tale, la libertà non è di questo mondo. Infatti, coloro che si occupano del mondo possono esercitarla solo raramente o addirittura mai" (F.W.J. Schelling, Clara, Rovereto, Zandonai, 2009, p. 42)


Posso dire di aver partecipato al mio tempo? Di aver vissuto il mio presente ubicato in un oggi speranzoso d'un avvenire migliore per me e per altrui, d'aver contribuito alla mia Storia secondo i miei ideali creati in un dialettico divenire-sociale?
Questo blog non compone, infatti, proprio un ritratto contrario, ovvero quello di una scrittura accovacciata, recroquevillée su se stessa, un autodafé della propria incapacità di comunicare direttamente agli altri e per gli altri, un perpetuo e voluttuoso irriconoscibile spiegarsi con se stesso al fine di perseverare il proprio io nel penoso sussiego di occasioni ispiratrice della scrittura? Non rappresenta proprio una sorta di scrittura a-sociale, o meglio anomica, una ripetizione scritta dell'esperienza di un suicidio che la società stessa mi ha imposto, limitandomi ad un lavoro teoretico e solitario e in fondo a questo blog?

Cosa ho fatto, insomma, in questi anni, per accompagnare il mio tempo verso nuovi e migliori orizzonti? Non sono forse rimasto negli ultimi mesi in una casa di provincia, chino su ristampe di libri e commenti ristampati di libri ristampati quando nel quartiere San Lorenzo a Roma si occupava il cinema Palazzo? Non ero forse preso dalla nostalgia del lirismo quando di fronte a Wall Street gli "Indignados" di tutto il mondo (slogan identitario giusto in questo doppio senso, a mio avviso: indignati dalla finanza ma anche, intuitivamente, non-degni di partecipare alla ricchezza) reclamavano di non essere dei sognatori, perché coloro che sognano sono proprio quelli che credono che il mondo non cambierà? Peggio: non sono forse rimasto steso ad asciugar la pelle al sole dopo un bagno rinfrescante, in certi giorni o ore di riposo, mentre il mio Paese si trovava sull'orla del deficit? Non ho anch'io provato, per quanto di rado, il sentimento di meritarmi il benessere dopo, in fondo, rispetto al mio lavoro, non aver fatto altro che scuotere più a fondo il (mio) pensiero verso abissi senza fondo, in cui l'auto-referenzialità è un pericolo evitato però solo all'interno dell'auto-giustificazione senza fondo dello stesso pensiero (il pensiero che va al di là da sé nel pensare se stesso)? Non è, inoltre, proprio nella blogosfera che si costituiscono oggi (come dimostra Jeffrey T. Schnapp di Harvard) comunità di condivisione non solo del pensiero, ma, al limite, del gesto stesso dello scrivere - un'interattività capace di abolire non solo tipograficamente ma anche nel metodo (nel suo farsi) le firme poste come frontespizio della propria procedura creativa (il prodotto creativo come "ferma", garanzia dell'unione dello scritto)?

Sono domande sempre presenti nel mio quotidiano. Potrei anche dire che ho un senso di colpa sospeso sui mio giorni. In un'intervista di qualche anno fa, Jean-Luc Nancy diceva che era ormai stanco di firmare petizioni, e che era giunto il momento in cui aveva bisogno del seguente credo: che se svolgesse il suo proprio lavoro con zelo, convinzione e responsabilità, questo avrebbe diciamo "automaticamente" aiutato gli altri, avrebbe contribuito a rendere il mondo un mondo migliore. In fondo, se non è scrittura né inquietudine quella che guarda il proprio ombelico, non lo è neanche quella che guarda l'ombelico degli altri, e perfino l'ombelico del mondo.

In questi anni ho sempre spiegato il mio mancato attivismo citando questa risposta di Nancy. D'altro canto, conformemente al mio solo principio direttore, non so se faccio bene. Difendo lealmente le mie ragioni nelle conversazione con le persone che mi sono attorno, ma cerco soprattutto di ascoltare. Non appartengo a nessuna ideologia, rigetto ogni tipo di "-ismo" e tendo all'indipendenza nei giudizi.
Osservando i comizi sorrido ai politici che lasciano il tempo agli applausi e che fomentano le folle. Tutto questo non mi appartiene, forse non sarei capace di entrare in un sistema di discorso basato sul consenso e sull'applauso, ma Robespierre è stato il primo personaggio storico a toccarmi, già durante la quinta elementare. Forse il problema della valutazione del presente come azione oppure no, mi interessa di più rispetto a ciò che sta già accadendo... ma appunto, se avviene.
Ecceduto dalle e nelle analisi, vivo nel passato guardando al dipanarsi del futuro, aspettando una carrozza che punti a raggiunger l'iperspazio; oppure siamo io e i miei simili a creare, in un sottosuolo invisibile alla moltitudine, l'ansia dell'evento che cambi il corso della storia, la premessa della sua riconoscibilità - e questo perché esso non avverrà che superando il fatto, superando il fatto del presente stesso ?

I miei anni prima della Rivoluzione sono gli anni d'un eroico sproposito.

(Il titolo è una frase del Talleyrand, e già affissa nella locandina di Prima della rivoluzione di Bertolucci).

Monday, February 20, 2012

Mente e corpo nella pratica del Breve-Intenso-Infrequente-Organizzato

Appartengo ad una generazione e ad un ceto sociale che ha avuto l'opportunità di vivere agiatamente gli anni di formazione. Questo significa che ha potuto godere di un'infanzia relativamente tranquilla, e che ha potuto coltivare diverse passioni a fianco del percorso scolastico, senza ricchezza ma senza privazioni.

Una di quella che non mi ha mai abbandonato è stata la pratica sportiva. Non mi è mai appartenuto, in fondo, l'industria del divertimento e neanche gli stati di alterazione mentale. Pur non essendo affatto dotato - anzi riuscendo male in tutti gli sport - continuo a sforzare il mio corpo nel diletto dell'esaurimento muscolare.

Perse le velleità agonistiche abbastanza precocemente, col tempo, infatti, mi sono sentito in un certo modo sempre più preso nell'attività fisica, vero pendant di quel percorso di formazione culturale. Ma la cura del corpo ha seguito una direzione meno lineare, incredibilmente più lunga e più tortuosa (sebbene ormai strutturalmente più conciliante e "definitiva", impossibile nell'evoluzione infinita e continuamente ripresa cultura), di cui vorrei evocare, più che i fatti, il pensiero stesso.

Difatti, per chi svolge un "lavoro" essenzialmente di rimozione delle proprie nevrosi nella parola scritta (nel sentimento della propria incapacità e del debito verso la società), l'unico rimedio è spesso l'uscita serale, notturna, con tutto ciò che vi è connesso. Io non credo di essere fatto per questo. La mia è la vita dello sportivo di alto livello senza esserlo.

E tuttavia, nei momenti di maggiore angoscia, quando lo studio mi trascinava nel bisogno di trovarmi indietro, lo sport ha assunto le funzioni del capriccio irresponsabile, d'una dipendenza positiva e maniacale. Lo sport era insomma la valvola di sfogo regolata di una sregolatezza dello spirito.

Fin quando, deluso dai risultati nell'estetica e nelle prestazioni, iniziai a chiedermi perché, proprio nei momenti in cui facevo più sport per evitare il confronto con me stesso, nei momenti in cui esso prendeva per di più i miei pensieri, il mio corpo regrediva, sembrava somatizzare le mie paure.

Fu la scienza dello sport a insegnarmi, e nella particolare forma dei BII e in particolare del BIIO, a come uscirne. Capii che la forma dell'allenamento doveva essere molto breve, intensissima e organizzata: che l'equilibrio di testosterone e cortisolo è più importante della vascolarizzazione; che il corpo cresce quando è a riposo. La presa di coscienza del mio ectomorfismo estremo fu un vantaggio nell'applicazione indomita e senza sbavature di tale metodo, che, nel momento in cui mi liberava dall'ossessione più o meno patente dell'estetica (l'impossibilità di allenarsi diversamente corrispondeva quindi alla serena accettazione del mio fisico nella propensione a piccoli ma continui miglioramenti), mi gettava ancor più nell'estremo rigore e nella conoscenza della correttezza di esecuzione e nei fondamentali. Non ho più preteso altro da me che la progressione lenta e continua, e una vita più diversa, e più serena, liberandomi dall'assuefazione delle endorfine naturali dello sport a capofitto.

Esso mi fece anche uscire dalla dipendenza dello sport stesso. Mike Mentzer mi ha insegnato, nonostante evidenti limiti nella sua concezione "filosofica" (il suo oggettivismo, mutuato da Ayn Rand, sarebbe in realtà errato se non inutile a spiegare i rapporti del proprio corpo con i propri meccanismi fisiologici, essendo collegato strettamente alla mente), che l'intensità è tutto, e che la razionalizzazione dello sforzo permette di sentire l'intensità stessa perché applicata in pochi secondi e quando il sistema neuro-muscolare è sufficientemente ricettivo a sentire l'ultima ripetizione, l'unica per cui allenarsi. I BII sono ciò che distingue una cultura della palestra dal culto del palestrato. Non mi ha fatto abbandonare il rigore nei pasti; ma l'atipicità e anche la poca flessibilità sono sfumate, perché ora ho più tempo per pensare e per vedere gente a cui tengo: ed è anzi proprio in questi momenti che i muscoli si strutturano, recuperano attivamente: nei momenti in cui approfitto d'una ritrovata socialità il mio corpo sta rispondendo esattamente allo stimolo che ho effettuato quando ero solo con dei pezzi di ferro; nei momenti in cui sfoglio le pesanti carte il mio corpo si assesta per rendere il peso sollevato il giorno precedente.


Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006