Pourquoi ne pas se retirer dans une intimité ferme et secrète, sans rien produire d'autre qu'un objet vide et un écho mourant? (M. Blanchot)
Sunday, April 15, 2012
La filosofia e la scrittura in versi: accenno di introspezione.
Negli ultimi mesi seguiti alla fine della dissertazione sul fondamento nella fenomenologia, le difficoltà che avevo nella lettura di testi filosofici non ha fatto altro che acutizzarsi, fino a tingersi di amatorialità. Ho continuato a seguire e ad interessarmi vagamente alla filosofia, ma in maniera sporadica, dialogica piuttosto che scritta e, sebbene continui ancora a sentirmi a mio agio nel pensiero del "concetto" più che in ogni altra branca del conoscere e forse anche del vivere, ho tuttavia dovuto allontanarmi da essa. Spesso ritorno sui miei passi, aggiungo note di ri-lettura o di aggiunta al già fatto in un file separato, ma devo ammettere che è la poesia ora a raccogliere le mie giornate e, soprattutto, a rinnovare la mia passione.
Perché questo richiede delle riflessioni scritte? Non dovrei lasciare libero corso alla mia volontà, ora che, in stasi esistenziale, ne ho l'occasione? In realtà, lungamente, pazientemente, criticamente, sono giunto ad una soglia che non oso superare: ciò che ho fatto, in qualche modo mi ha modificato. E di questo devo essere la misura. Anche se essa si rivelasse immaginaria o irreale, anche se essa non facesse che confermare un dettame inconscio o peggio i presupposti, le fisime perfino, i "caratteri soggettivi" da cui sono partito, non comprometterebbe la riuscita dell'operazione che, di diritto, urge da sé e per sé.
Ho lottato contro il dogmatismo, ovvero contro la tendenza all'identificazione della mia pratica di pensiero con un'altra pratica già costituita, la quale si sedimenta massimamente con il programma di un autore. Questa lotta è stata, credo, assoluta, e mi si potrebbe benissimo rimproverare di essere stato quasi testardo nell'averla perseguita su tutti i fronti, compresa la comprensione del mio stesso argomento. Ma quest'opinione sarebbe puramente sanitaria (riguardante la mia salute mentale), perché credo, attraverso un approfondimento senza sconti di un tema difficilissimo e aporetico, di essere riuscito nell'intento di aver operato una critica immanente del fenomeno di "fenomeno". Ho combattuto, e mi è costata fatica, insonnia e palpitazioni notturne, nell'aporia, ma non potevo lottare da un altro luogo che dall'interno: era l'unico che mi permetteva di sentirmi nel luogo ideale non solo, certo, per sbloccare qualcosa nel dialogo filosofico contemporaneo, per pungere ironicamente le opposte e risibili fazioni, ma anche per non darmi appiglio nel già-detto come luogo di stratificazione del senso come della significanza. Alla redite, ho preferito la refonte du Dire. La ragione fenomenologica infine deformalizzata, il concetto non essendo più che un'entità liminare, mi è parso di essermi situato all'interno di un contesto in cui si trattava certo non già di non continuare a pensare attraverso il concetto, ma di pensare che il concetto dice anzitutto un non-concettuale, in cui il concetto è un nome per una dinamica del sentire, di un "devi cambiare la tua vita", come dice l'ultimissima citazione di Rilke che chiude il mio lavoro, che rimette in gioco interamente la mia tesi se rientrasse solo nell'ottica di una "visione" particolare. Ma appunto questo passaggio è sussunto dalla mia posizione.
La scrittura in versi ha inizialmente costituito per me ciò che per un animale domestico costituisce la distanza attraverso cui guardare con circospezione il mondo dell'uomo. In fondo sono troppo disadattato e asociale per trovare altrimenti la compensazione ai miei sforzi. La scrittura in versi mi ha appagato in questa difficoltà, è stata davvero un alibi troppo forte per cambiare, appunto perché essa richiede uno sforzo inappagato di essere incluso verso altrui, richiede una domanda ininterrotta del perché scrivere. La filosofia accademica non me lo ha permesso, malgrado tutti gli sforzi di "essere originale mio malgrado", di decostruire con senno. Malgrado la strenua lotta al dogmatismo mi abbia formato, la filosofia non ha permesso di liberarsi dal commentario, dall'apologia e dalla critica. La filosofia non mi ha permesso la libertà di espressione, se si intende per essa non tanto la volontà di esprimermi senza freni (questo blog non avrebbe infatti allora assolto già più questo compito?), ma piuttosto "l'intima necessità" di fare sì che ciò che si dica sia sentito come massimamente libero.
In questa libertà siede infatti il mio mondo. La scrittura in versi è stata il modo in cui ho potuto indagare i concetti con cui esprimo il reale, con il reale che esprimone: un pensiero incarnato fino alla controprova. In questo modo la frase di F. Ponge: "sii virtuoso, e scriverai dei bei versi", ha operato in me anzitutto come freno a qualunque velleità. La scrittura, la composizione dell'opera in versi (non ancora ultimata, se mai ultimabile), un'eventuale pubblicazione (che è parte integrante del processo di scrittura, come un "rendere pubblico"), sono quelle che per prime mi hanno già fatto perdere velleità di essere "poeta". Perché non c'è la poesia come struttura di scrittura, come altro dalla vita, e nemmeno come identica alla vita: essa è umilmente per me un aiuto all'evento, al suo mostrarsi, un divenire-evento dell'evento. La lotta contro il concetto, contro la teoresi, l'astrazione, è qui perseguita nella lotta contro il "verso migliore", contro l'astrazione simbolica, contro l'intellettualizzazione senza posta in gioco. L'economia linguistica del verso è stata allora l'economia dell'evento della mia vita e del mio immaginario, alla prova e in misura dei miei pensieri.
Conservo la speranza, ed è giusto che ne scriva oggi in cui nessun progetto si è ancora formalmente finalizzato, di poter produrre anche dell'altro che della filosofia o della scarna scrittura in versi. Forse con essi, parte della mia esperienza sarà non tanto fissata (il che sarebbe contraddittorio con l'esperire stesso), ma proprio... esperita.
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Sappho

"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)
Sehnsucht

Berlinale 2006
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