Se viaggiassi nei secoli anziché negli spazi, e, in luogo da incontrare personaggi forse apparentemente più consoni ai miei desideri, piombassi per curiosità di fronte al pre-scienziato Erone di Alessandria, sono certo ch'egli mi chiederebbe chi sono io e cosa faccio lì, con tali stravaganti vesti. Gli direi che in un qualche modo sono piombato per caso dalle sue parti e senza volerlo. Egli non sarebbe un tecnocrate convinto, come gli ingegneri oggi; neanche un positivista storico. Mi sembra di scorgerlo piuttosto come un'appassionato capace di credere nella capacità dell'uomo di creare, di scoprire, di adoperare il suo genio nell'invenzione.
"Cosa sei tu?"
"Uno piuttosto appassionato di filosofia, di quelle che oggi chiamiamo "scienze umane". Non ho schiavi per mantenere viva la mia passione, è lo Stato che se ne occupa ma durerà ancora poco".
"Quali sono le tue invenzioni? Io ho qui un'eolipila. Ho imparato a dominare la forza del vapore per l'umanità che potrà servirsene".
"Io... non sono così sicuro di ciò che avrei dovuto inventare nelle pagine scritte. Non solo non sono più sicuro di ciò che ho detto, ma mi sembra di non dominare nemmeno l'innovazione che ho cercato di sviluppare ".
"Lungamente ci ho lavorato, ma ora, con un breve movimento di una manopola, riesca a trasmettere la forza ad una serie di ruote dentate via via più grandi che permettono di sollevare pesi enormi"
"Le tue invenzioni sopravvivono ancora oggi".
"Me ne rallegro! E cosa si inventa nelle scienze umane nel vostro tempo?".
"Sai, un' "invenzione" oggi è alquanto malvista: esoterica e ai limiti con le scienze."
"Allora qual è il frutto delle vostre scienze? Quale quello della tua scienza?"
"Il mio tanto poco cammino è sufficiente per abbozzarti una risposta: la mia invenzione è la paralisi stessa d'uno studio della capacità d'inventare. E' forse l'invenzione senza scienza, la trovata senza sistema, la gioia senza conciliazione; forse solo tu, Erone, potrai un giorno, nel tuo remoto, averlo espresso".
The Yes Men fix the world non è solo un documentario volto ad individuare le responsabilità delle multinazionali nell'applicazione rigorosa della teoria fridmaniana del libero mercato sulle speculazioni precedenti o seguenti le catastrofi (come quelle di Bhopal o New Orleans). Non è neanche solo una serie di candid camera che dimostrerebbero la facilità di prendersi gioco dei rappresentanti delle sopra riportate, proponendo progetti assurdi (qui a fianco la locandina presenta una tuta anti-catostrofi, appunto) - sotto il segno dei profitti sul terrore e in generale sugli attentati alla vita.
Il film è certamente tutto questo, a patto di intenderlo primariamente o segretamente (ma ormai per questo blog i due avverbi si avviano verso un percorso di sinonimia) come una riflessione sul senso del "cambiare il mondo" attraverso la culture jamming. Il tutto avviene nel film soprattutto ma non esclusivamente dal piedistallo e il microfono di un palco per conferenze (ma anche da un collegamento in un telegiornale e da una pubblicazione contraffatta del NY Times). Tale luogo è infatti attributario chissà perché di una veridicità della parola propria a colui che proferisce il discorso, al pari del nome della persona e del suo ruolo. Per esempio, gli Yes men si spacciano per qualche minuto per un rappresentante della multinazionale in questione e annunciano misure anti-profitto: rimborso alle vittime, apertura di quartieri popolari chiusi senza motivo... Attraverso questa messinscena, imbroglio, questa bufala ("hoax" in inglese racchiude questo campo semantico), attraverso queste false vesti, anche il discorso più giusto viene dapprima incoronato come tale, "preso" come tale, come giusto, come una buona notizia, e poi, una volta scoperto, sottoposto paradossalmente all'etica del dover "dire il vero". L'incriminazione è quella di aver detto ad esempio di essere un membro della Essox né un qualche assistente della Departement of Housing americana, allorché si è un semplice attivista; l'aver gabbato così anche le vittime dei disastri.
Si potrebbe dire che il discorso degli attivisti è uno speech act: il suo dire non è "vero", non è in regime di verità né di falsità, poiché il suo dire è un fare. Il gabbo, sotto forma di annuncio, è dunque effettivo. "Faremo questo: rimborseremo le famiglie dei morti sul lavoro per esempio con un po' dei nostri miliardi di dollari di profitto".Il senso però del "giusto" di una tale azione è più che una "promessa": la speranza e l'attesa di un tale atto sono entrambi dovuti alla realizzazione di ciò che è giusto, ciò che è dovuto. Nel contempo, un gesto giusto spinge inconsciamente le persone che ne sono gabbate, dunque non solo le vittime, ma tutti gli astanti, a rinnegare il principio friedmaniano del profitto a tutti i costi (un ipersmithismo che pretende il mondo ordinarsi liberamente) e dunque a volere un mondo migliore.
Il proclamo è dunque al di là di verità e menzogna, come al di là dell'atto linguistico. Si tratta in effetti di un hoax. Nessun atto linguistico è all'opera davvero. Ma esso compie, in particolare dopo lo smascheramento, un regime di verità che ammicca alla realizzazione di un mondo più giusto (come in questo hoax qui di lato).
In regime di impostura una "scelta" a monte è certo già compiuta: è giusto che la guerra termini subito? Milton Friedman ha davvero torto? Non si tratta allora soltanto di giocare sulle speranze della gente? Il fatto che tutti vogliono questo, che la notizia sia sentita come una grande notizia prima della smentita, non significa semplicemente che ciò che è in gioco è il sentirsi sollevati, e non il difficile compromesso con i problemi del presente, su cui l'amministrazione Obama (fonte di speranza alla fine del film) sembra si sia impelagata oggi, a tre anni buoni dal film?
Nell'impostura, finalizzata, strategica, non c'è traccia di problemi assiologici o teorici. Si tratta di credere nella giustizia e di operarla sul piano di un linguaggio che denuda il sentimento del giusto.
Cionondimeno, la sua tesi starebbe nella reazione delle vittime stesse, che dovrebbe bastare da sé: dagli indiani agli sfrattati, ai lettori di NY. Questo va al di là della temporalità delle aule di giustizia e forse della stessa politica. Il "sentimento" del giusto ha il tempo di una vita, di un lutto, di un abuso: converge nel risentimento dell'oppresso. Oggi, l'impostura raccoglie la giustizia dietro la menzogna. Della verità non resta che lo spacciarsi per essa.
Mi trovo in questi giorni in un certo tipo di crisi, che ripete privatamente aggravandola quella che piomba sulla storia collettiva. Mi trovo a dover verificare il senso degli ultimi anni attraverso un concetto - o meglio, lo svuotamento del concetto dal concettuale nella nudità d'un trascendantal-empirico. Non c'è bisogno di capire il senso della frase precedente - non c'è bisogno di capire quanto la mia vita, scavando fino al fluire la mia quotidianità, si addossi il pensiero con una disperazione così grande da prepararlo all'evento di ciò che esso non può afferrare (con-cipere)- e perché non ne venga fuori con la solita carica di retorica dell'alterità radicale: ne ponga anzi le basi per una pratica concreta d'esperienza.
In questi momenti in cui scelgo di legarmi il non-filosofico fino alla relazione interna col pensiero in queste unità elementari che chiamo sentimenti, ma forse avrei dovuto chiamare inquietudini (o disquietudes), le immagini della mia vita si spandono di fronte al mio tavolo da lavoro. Al vertice di questa ansia, come nell'istante del trapasso (si dice), vivo il culminare di un percorso, il dare un senso complessivo ad una singola illuminazione la quale, al momento di spegnersi subitamente, riscopre il senso di tanti momenti che avevano causato quello stridume, quel negativo che mi ha poi permesso di arrivare alla disperazione creatrice, solitaria e burbera.
In un altrove ho avvertito più che sentito e ascoltato questa canzone, insolita a dire il vero per le mie orecchie. Ecco qui il testo, sopra un video emblematico più che altro, e poi la musica del video.
C'è in queste parole una specie di lirismo, un lirismo sociale, aggravato se esse sono ascoltate a partire della mia squallida vita teorica e microcosmica, e dallo sguardo da etologo che ho verso il "mondo" delle discoteche. Parlo della mia propria vita, privata, stupida quasi certamente, collocata nei miei poveri limiti di pantofole e capelli. C'è qualcosa di terribile in questa "bella gente" che si diverte, e il lirismo sfocerebbe quasi nel sublime, un sublime sociale, in cui la paura di ricadere nella commercializzazione di individui, ideologie e messaggi non è spoglia, in un atteggiamento sostanzialmente contemplativo (o in un ballo d'ascolto piuttosto che di divertimento), d'una subitanea contro-reazione capace di coglierne il lato non pericoloso, il lato che fa pensare che si tratta pur sempre d'un prodotto dello spirito e che magari si è distaccato inconsciamente dalle intenzioni autoriali di divertire e vendere. Mi mortifica anche solo utilizzare quel gergo e farne parte anche solo descrivere ciò che osservo. Mi scaraventa in quel mondo e mi dilania del mio tempo passato in posti simili, di cui questa dovrebbe rappresentare, veicolare i "valori", nel senso di ciò che vale di quei posti. Piscina, sole, bibite, "fighe", musica, ballo, esibizione... stramazzo a terra solo a isolare questi vocaboli e mi sento soffocare da così tanta violenza ideologica dietro questi oggetti, persone o eventi, che vorrei davvero finirla lì.
Eppure, sarebbe una creazione concettuale peggiore che tutti i valori veicolati non guardare la testualità di questo prodotto, e non pensarlo come tale né ripiombare nel me in questi posti. Riattivare piuttosto la storia della mia idiosincrasia ad esso e delle mie ragioni contro di esso all'ombra di questo video, musica parole.
Come ogni prodotto, anche in quelli dell'industria culturale sopravvive un pertugio individualizzante in cui ci si può collocare: un negativo agente, una catarsi paradossale nella meschinità talmente profonda che essa non riesce più a controllarsi e sfocia in forme di disassoggettaemento rinnovato. E' arduo ammetterlo per me, ma il lirismo, si acutizza ove non si acutizza vicino agli umili (come in Saba, "Città vecchia"), ma vicino agli abbienti (o appariscenti tali), e addirittura negli arroganti. Il testo del brano non ha nessuna pretesa; eppure, narrando di una serata di sballo insensato condotta nella mancanza - per poi sentirsi vivo in un'esperienza così stralunata! - in equilibrio col banale come non mai (da salvare quasi, chiede la grossièreté di questo testo paradossalmente), con questa melodia vagamente triste e sul punto da essere looppata, sottratta al senso e alla voce per diventare musica, ripetizione, ecco è proprio in quel momento che si converte in un rito commercializzato, sì, posso immaginarmi come se fossi vivo nella più deleteria finzione massificata.
Nothing's in the photograph Nulla appare nella fotografia
I got lights in the way A parte delle luci nella via you’re gone and out of mind, and I Sei andato via dai miei pensieri, e io
Wish you would stay Avrei voluto che ci rimanessi
Falling out of my head Rovesciandoti via dal mio capo
I got a twisted sense of time Sai, ho uno strano senso del tempo
Feels like I’m turning red Lo si prova come se arrossissi Feel so alive Mi sento così vivo
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)