
Durante un'accorata partecipazione emotiva in un film carico di effetti speciali e fondato su di essi, capita di chiedersi che effetto si avrà ad una visione dello stesso tra qualche anno. Se la cartapesta o le macchine semoventi trovano il limite nella meccanica dei movimenti, diverso è il caso di oggi. Durante la visione di Avatar, mi è capitato di chiedermelo.
In una discussione avvenuta qualche tempo fa, mi è capitato di intuirne una risposta, pur non avendone i mezzi, il tempo e la voglia di approfondirla analiticamente.
Per dirla d'una formula: la tecnica degli effetti speciali creati con la computer grafica è infinitamente perfezionabile, perché il riflesso degli effetti di luce sulla materia è indefinitamente diverso da quello di qualunque riproduzione o forse anche studio sulla luce (volendo, quindi, si può applicare anche al realismo della pittura, benché in tal caso non sia possibile la correlazione, come in Avatar, con l'universo fotografico. O comunque un'unione nel quadro di fotografia e colore resterebbe da fare).
La tecnica del motion capture, in effetti, dice ancor di più su un'ontologia della luce all'epoca della sua (della luce) derealizzazione tecnica. Se nella motion capture (degli albori, come nei primi videogiochi) si collegano i movimenti di un uomo in diversi punti-chiave per catturarne il suo movimento (e che rende possibile la fluidità degli uomini-gatto del film), in questo caso il sensore coglie una luce emessa artificialmente, che non illumina, ma segnala. Offre un segno per la ricostruzione, che non deve però nulla alla luce. Non diversamente lo sono quelli utilizzati in Avatar: sebbene non siano presenti emissioni luminose. In ogni caso è il puro moviemto che è catturato dalle macchine da prese, e non la materia che lo effettua. Può dunque esistere un movimento senza luce. Una macchina da presa che colga, invece (come in qualsiasi altro film) il corpo che si sposta, riprenderebbe la luce che riflette tutti i punti del corpo, introducendone (paradossalmente) le oscurità che lo rendono reale, ne conseguono i contorni all'interno della totalità dei punti stessi.
La realtà è infatti l'oscurità nei punti, che ne dà lucidità, effetti, rilievi, lunghezze d'onda diversi di colori "reali", complessi.
Vi è qui allora un'ulteriore differenziazione dalla fotografia, dal cinema di conseguenza e dalla pittura. Infatti quest'ultima è direttamente perché essa l'è su una superficie fisica (e dunque entra in contatto con la luce dell'ambiente): il cinema e la fotografia non pixellizzati, invece, che non possiedono una superficie fisica trascurabilie, non fanno che lasciar trasparire ciò che avevano di fronte a loro (come se riprendessero una luce con oggetti fisici). Si fanno esse stesse luce.
Diverso il caso del digitale, in cui si scompone la luce per ricrearla, ma nonostante tutto tramite un'impressione originaria dell'obiettivo.
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