Monday, April 20, 2009

Innamoramento e amore, di Francesco Alberoni.

Ultimamente, per bisogno di essere contrariato, esco dal guscio dei capolavori disseminati nella storia delle lettere, o di quello dell'ontologia fondamentale, per gettarmi a capofitto in libri contemporanei, che termino di leggere nel giro di poco tempo (contro le calende greche dei capolavori). Cosi, mentre Aristotele, Flaubert, Leibniz e Joyce restano ad accumulare polvere maestosa spostati tra comodino, scrivania e scaffale, col segnalibro fisso verso metà – finisco per leggere saggi del tipo di Innamoramento e amore di Francesco Alberoni.
Lo faccio innanzitutto per capire come si fanno a mantenere simili posizioni leggere, e scriverci pure. L'atto di scrittura penso debba sempre evitare il banale, il “si sa”, eccetto nella pubblicistica o nella politica (la denuncia politica e l'inchiesta dovrebbero non ricadere in questo campo). La scrittura non deve mai accontentarsi di se stessa, non deve mai limitarsi ad esporre cose già dette o di buon senso, ma cercare di centellinare il vero che c'è in esso attraverso un inedito ad esser immanente.  La letteratura non dovrebbe apprendere nulla, se per apprendere si considera la lezione ex cathedra, l'inculcare, la dissimmetria. E come scrivere se non si è convinti di qualcosa, e perché farlo altrimenti? Come fare perché il corso della penna non si arresti su particolari irrilevanti, aneddoti, dettagli biografici, amenità? L'anodino è il nemico della scrittura, sottrazione del tempo al lettore e mancata auto-analisi dello scrittore.

“l'innamoramento, invece, pur essendo un movimento collettivo, si costituisce tra due persone sole; il suo orizzonte di appartenenza, qualunque valore universale possa sprigionare, è vincolato al fatto di essere completo con due sole persone”

Il libro di Alberoni, datato 1979 ma che compare quest'anno in edizione aggiornata, parte da una posizione interessante: l'innamoramento è lo stato nascente di un movimento collettivo a due; l'amore è la prosecuzione dell'innamoramento sul piano dell'istituzionalizzazione di tale rapporto, il combattere le difficoltà a due. Come si sa, dopo anni di diffamazione del concetto di "amore" (durante il '68), nonché dopo la psicoanalisi, che riduceva l'innamoramento ad una pulsione sessuale e l'amore a un sentimento di repressione della sessualità stessa, Alberoni si propone di esaminarlo come semplice movimento collettivo. Questo originale punto di vista ha fatto sì che continuassi nella lettura; la mia scarsa conoscenza nel campo dei “movimenti collettivi” e della sociologia, oltreché la pretesa tabula rasa delle posizioni idealiste-romantiche, scavalcando il suolo comune e le definizioni ideologizzanti dell'amore veicolate da Hollywood, mi hanno permesso di continuare nella lettura. Se non vi è una mossa di base in sé originale, nessun testo vale la lettura.
L'innamoramento fa parte del campo dello straordinario. Seguendo una divisione intuitiva, Alberoni lo distingue dall'infatuazione erotica: l'innamoramento comporta una reiscrizione dell'amante, che non è abbandono nell'amato, ma piuttosto costruzione di un nuovo orizzonte semantico con l'amato. L'amore non può quindi essere che monogamo. Non può avere più persone come oggetto, come non si possono seguire più capi allo stesso momento (tale è l'accoppiamento di Alberoni: amore-rivoluzione). Senza quest'atto di perdizione-acquisto del senso complessivo della vita dell'amante (gli esempi sono La Divina Commedia, il Canzoniere, I Dolori di Werther, Abelardo e Eloisa), non vi è alcuna speranza di considerarsi innamorati.

“Entrambi gli individui si sentono attraversati da forze straordinarie, sentono di poter finalmente realizzare i loro desideri più profondi, il mondo diventa luminoso, tutto appare possibile, l'altra persona ci appare come la strada, l'unica strada per raggiungere il luogo in cui il dovere coincide con il piacere”

In Alberoni, come nella cultura corrente, l'innamoramento è visto come il “veramente” di ogni rapporto umano, il massimo attingibile, e ciò che ci è di più proprio, che ci distingue dagli animali. A buon diritto dunque non solo, come nella psicoanalisi, l'uomo si distingue dagli animali per la pulsione sessuale costante, quanto per il volere che questa sessualità sia straordinaria. Nei primi due capitoli Alberoni pensa che ogni uomo voglia questa sessualità straordinaria, che è di fatto quella che si ha solo quando si è innamorati (sicuramente la sessualità è più nella testa che nei genitali, ma perché solo con l'innamoramento si ha la sessualità straordinaria?). Come si vedrà, il lessico si basa su pretese evidenze empiriche, che invece possono non risultare affatto chiare (ecco perché o il pensiero è fondamentale e, direi, “concreto”, o non è). Questo chiude il libro nel cerchio di lettori disposti ad ammettere i postulati di partenza: l'innamoramento è meglio, l'innamoramento è inevitabilmente il massimo raggiungibile da un uomo nel movimento collettivo con la donna.
Interessante notare come nel saggio si crei la seguente sfumatura: che ci voglia una predisposizione all'amore: l'amore non può manifestarsi sempre, e se una persona è a suo agio con la vita, l'innamoramento difficilmente riuscirà a subentrare. Più facile dunque quando si necessita una messa in gioco di sé, o tra due persone che lo vogliono. Romeo e Giulietta covavano interiormente il loro sentimento: tutte le condizioni esterne erano loro contrarie. Tramite questo atto stabilivano un mondo diverso, un mondo che apparteneva loro.
Il passaggio all'amore si fa con il subentrare della durata, del progetto, della sincerità, del volere combattere le difficoltà, “le onde del mare”, a due, come si lotta insieme in un qualunque altro movimento collettivo, pena lo smembramento.
L'amore conserva la sua struttura identica anche per un figlio, per una persona che non ci ama, o che è già morta (come Beatrice per Dante). L'importante è l'elevazione della sensibilità... Alberoni dice che l'amore apre i sentimenti, eleva alla poesia anche una persona che è sprovvista di particolari doti di lettura e scrittura.

Due ultime "chicche" d'un certo rilievo:
l'amore sfuggente è quello più interessante? Sì, come innamoramento, ma non come amore, che richiede pianificazione, progetto.
Quando si pensa ad altri partner durante un rapporto sessuale con l'amato, significa questo che non si tratta di amore? Assolutamente no: anzi, lo si fa per esorcizzarli e per far si' che l'amato solo si trovi lì con noi, alla fine, unico. Lo si fa per rassicurarsi sull'amato, per trasferir su lui il senso dei nostri ex, e i nostri pensieri.
Ma allora, nel caso si faccia l'amore con una persona di cui non ci importa nulla, a si pensa alla persona che ci piace di più, cosa accade?
A questa, e ad altre domande, il breve saggio di Alberoni non può rispondere. 180 pagine, troppo “ariose". Soprattutto, l'argomentazione è quella dei “reculons”, tipica della retorica dell'amore: si sposta sempre l'asse dell'amore, il vero è sempre quello più radicale. In tal modo, tuttavia, il fenomeno dell'amore non accade sempre, o anche: non accade. La psicoanalisi e la filosofia volevano infatti, smontando l'amore come privilegio, soprattutto uno slancio-verso: da qui la pulsione, il desiderio, o anche la conoscenza (Platone). L'amore di cui parla Alberoni non sarebbe che un sentimento particolare d'un "voler bene" più diffuso e generico. E' piuttosto, come nel senso comune così propria del giudicare altrui, sempre pronto a smontare i sentimenti e le persone, la gerarchizzazione a permettere, a livello ideologico, di spostare sempre al di là l'amore, dando condizioni che è difficile mettere alla prova in concreto, per non dire impossibile. In fondo, se non andava, non era amore. Come dire: se non lo si può riconoscere, non è amore. L'adagio è quello solito: si deve essere innamorati dell'amore per innamorarsi. Le possibilità del movimento collettivo a due sono dunque bloccate in maniera reazionaria o, al peggio, naturalizzate a un sentimento surplombant il movimento collettivo stesso nonché i soggetti agenti.

Sunday, April 19, 2009

L'evento tra incontri mondani e ontologia.

L'evento apre lo spazio del possibile. Deleuze vedeva appunto nel '68 questa voyance, la possibilità del vedere, del vedere altrimenti. La filosofia continentale contemporanea, nutrita di Kierkegaard, sia dal lato heideggero-derridiano sia da quello lacanio-deleuziano ha sempre più trasformato il possibile in evento, che indica innanzitutto Öffnung, béance, apertura. Prima di essere progetto di un futuro, è una stasi del possibile, il momento in cui il possibile si diffonde come possibile e non come calcolo del possibile. Lo scegliere è ontologicamente inutile nell'accadere dell'evento.

Tanto si è detto, e in modo interessante, sull'evento, e tanto resta però da dire. Al confronto, queste parole sembrano scorrere via come acqua piovana.
Eppure, l'evento non può garantire il suo carattere evenemenziale senza una copertura subitanea. Senza un ritorno di ciò che è la celerità nel suo darsi, l'appesantimento del suo chiudersi in un non-evento, una possibilità di essere non-evenemenziale. L'evento richiede una sua maîtrise, come richiede una expertise ma non nel suo accadere. L'evento è sempre più docile, a posteriori, di quando lo si vive: la sua elaborazione è postuma e gli è pure dovuta. L'evento deve ricadere, anche solo per volontà di perpetuarsi come e nel possibile, nel ritorno della coscienza.
Vale dunque la pena soffermarci sull'evento? Vale la pena discutere di ciò che è evenemenziale? E' possibile farlo tornandoci sopra senza però sopraffarlo del suo carattere evenemenziale? Non avrebbe forse l'evento una sua temporalità (o forse solo un suo “tempo”, una sua durata), una sua teleologia, che lo porta a prendersi beffe dell'arrivante, colui che sopraggiunge nell'evento (visto che nell'evento non c'è soggetto)?

Non parliamo qui della teoria della verità di Heidegger, l'a-letheia che è anche un Verbergen. Se la verità si copre in Heidegger, è in base all'orizzonte finito dell'essere, che non può darsi completamente, ma secondo un processo di s-velamento, e il cui processo dipende dall'essere stesso.
L'evento che ci interessa è invece il non-evento della ripresa dell'evento, di quell'altro evento, se si vuole, di scoscienza dell'evento. Qualcosa accade; qualcosa mi chiama; sento qualcosa nella mia carne (tre lessici diversi per dire l'evento), l'evento resta il tempo necessario perché io lo riconosca.
Come si vede, contestiamo il carattere straordinario dell'evento.Un evento ordinario, che tuttavia sembrerebbe allora un puro accadimento.

Non essendoci criterio per stabilire cos'è l'evento e cos'è l'accadimento dal punto di vista dell'evento, dato che l'evento appena si verifica non è categorizzabile come evento ma solo (e forse) successivamente situandosi appunto nei possibili che esso ha aperto, l'evento opera, a ritroso, di nascosto, anche quando l'evento non c'è... c'è un continuum della nostra vita, un flusso, che non si arresta davanti all'evento.

“Evento” designa oggi, e così anche nelle altre lingue che conosco, quei “meeting” di persone, tipo fiere ecc., ed è circoscritto a questo. Questo significa anzitutto la sconsiderazione del mondo moderno per la filosofia. Se solo si sapesse della letteratura sull'evento, l'associazione di questo termine alla mondanità, al commercio e al deal, chiederebbe per lo meno una certa precauzione.
"Organizzare l'evento", "managing l'evento", è al meglio un ossimoro, al peggio una contraddizione.
Si può provare a effettuare un legame tra questi due concetti, quello della preparazione e del risultato dell'evento e quello dell'evento stesso, ontologicamente compreso, oppure sono due ambiti vicini solo nominalmente, e in realtà completamente separati nella loro propria venuta?

Sebbene gli 'eventi' non abbiano nulla dell'evento, nulla dell'apertura dei possibili, visto che esso è illimitato per principio, invece gli eventi – già plurale – sono limitati a ciò che è stato fatto, concertato, propinato, appioppato al pubblico, limitato a ciò che è esposto. L'evento mondano è preparato, "serve-a".
E, l'evento ontologico, non dev'essere anche ricucito dalle trame del senso? Non dev'essere anch'esso preparato come evento, per non confondersi con la "sorpresa"?

L'evento lo necessita, necessita una copertura riluttante all'evento stesso: necessita ontologicamente un meeting postumo adibita a realizzare il suo possibile, al fine appunto di conservarlo in un carattere diverso da questa fiera stessa, un carattere perduto e da recuperare al di fuori da questa fiera imbottonata e dai suoi presunti risultati mondani, affaristici o perfino culturali; necessita un inappropriabile di quest'aria di sviluppo imprevedibile che corre negli splendidi saloni e non negli spiriti disincentivati dei faiseurs di concetti.

Saturday, April 18, 2009

Fratellanza e cadaveri a partire da 6 feet under

Il senso della famiglia mi pare legato al sentimento della caducità di sé - se per famiglia intendiamo il permanere nel tendere una mano al prossimo del mio passato in maniera responsabilmente (to take over), e, in questo "prendere oltre", perseverare tale unione nel presente.
Esso è innanzitutto un segno di non belligeranza: si tende la mano per non ferire.
“Tendere la mano” è qui generico per dire: non voglio impossessarmi di voi, né voglio che voi lo facciate di me. Ma tendere la mano non è uno spazio neutro: non c'è alcuno spazio che è diviso, c'è l'immediatezza di un contatto immediatamente stabilito, un contatto che non può trovare nessun luogo se non il contatto stesso, cioè la dichiarazione tacita d'intenti.
L'altro è mortale, è ledibile, ma io non voglio che egli divenga così. La fratellanza è il contrario della forza, ma anche e soprattutto dell'obbligo, visto che essa non obbliga a nulla che non sia già un tenersi in contatto.
Al massimo, è questa genericità del contatto a chiuderla a un orizzonte totalmente “liberato”. Che non ci sia nient'altro che la fratellanza, che questo momento di fratellanza (che poi è gemellato con la pietà e la compassione, il darsi pena per l'esistente in quanto tale), accade senza però ricambiarlo integralmente a livello delle sue richieste... ognuno ha i suoi bisogni determinati. La fratellanza non risponde a nessuno di questi bisogni, ma al semplice bisogno di avere un bisogno.

Queste confuse riflessioni sulla famiglia e in generale sulla fratellanza, senso della famiglia, mi sorgono dalla serie Six feet under. Benché preferisca di gran lunga il cinema, al punto da dire che è la prima che seguo in maniera imperterrita (eccetto la prima stagione di Berverly Hills 90210, ma avevo 11 anni). Ne sentii parlare in una conferenza (per una volta che una conferenza mi è stata utile).
La coralità di Six feet under mostra quello che ho appena detto grazie all'idea di cadavere. Adattandosi perfettamente al suo medium, per essenza portato ad andare sempre alla prossima puntate, si pone in una commedia umana variegata, in cui la famiglia di becchini si trova sempre a fare i conti con la morte. Spesso come un semplice lavoro, altre volte vedendoci riflessa la propria situazione, d'un riflesso spesso deformante. Lo spessore dei personaggi, inedito per la serie, non gode, per fortuna, di intellettualismo. Si può' dire che loro, ma soprattutto Nate, non hanno alcuna risposta da dare alla morte, eccetto, in qualche modo, una certa vicinanza, una certa empatia, o piuttosto sym-pathia per le persone in lutto e anche per i loro cari. Il rispetto e la sacralità sgorgano senza intenzioni buoniste. Il “piangersi addosso”, questa violenta espressione popolare per coloro che rimuginano, è espunta dalla serie in quanto loro rinnovano ad ogni episodio la propria condizione di mortali dappresso ai cadaveri. Il sottile filo rosso che li collega alla vita viene loro dal convivere con la morte e in particolare dal contatto impossibile con il cadavere, luogo di nascita di un senso che costituisce l'avanzamento immobile (perché misterioso) verso un comune percorso in una precaria ricerca della felicità.

E questo è perfettamente nascosto, perfettamente normale. Il loro mestiere è anzi vendere il lutto, speculare in un certo modo sulla celebrazione del defunto, perché egli possa restare in vita tra i vivi. Ma non siamo allora noi stessi a celebrare, con la nostra stessa vita, la mancanza dei morti? E nelle nostre vicende quotidiane, chiassose di fronte a ciò che richiede un morto, non è solo con una fratellanza minimale, propedeutica dell'amore (dell'avvicinarsi all'altro), che si riesce a sopportare il peso dello sguardo chiuso dei morti?

Rispetto al cadavere, gli altri sono un'illusione, mi sembra, meno vana di quella del nostro affaccendarci... almeno in quanto sono uno sguardo su noi stessi. Anche quando in autobus nessuno mi osserva, e io leggo non curandomi degli altri, che bello pensare di essere con loro per un tragitto. E se non voglio vedere nessuno, che strano volere che loro siano comunque là fuori!

Monday, April 06, 2009

Il banchetto dei gabbiani.

In questi giorni di solitudine anelante primavera, percorro le calli di Venezia in maniera frettolosa, e esco di casa solo per espletare funzioni strettamente vitali. La strada che separa casa mia dal dubbioso tepore delle tovaglie in fantasia bluette del dopo lavoro ferroviario dura cinque minuti appena. Tra le fondazioni e le calli incrocio turisti e studenti; sui gradini del ponte di Calatrava aiuto anziane signore, o avvenenti turiste, in modo zelante e disinteressato da ringraziamenti. Mi affretto, insomma, sebbene nessuno mi aspetti, né a casa né al punto di "ristoro". Il "resto", quello, può sempre aspettare, e aspetterà una vita intera, la mia vita intera.
Questa mattina una signora sporgeva il capo verso il canale. La incuriosiva un cruento banchetto di gabbiani. A turno, attaccavano un povero granchio, che tentava di difendersi con le chele dal rapido becco dei pennuti. A fianco, una carcassa, già svuotata, di un altro granchio giaceva riversa.
Sembrava uno spettacolo, una sorta di duello, che si svolgeva su una barca, coperta da un telo rigido, posto evidentemente per scongiurare l'ingresso della pioggia che ancora non smette di prolungarsi oltre marzo.
Il duello era impari, ma non tanto perché i gabbiani erano in due. Era data da un'indifferenza che era in realtà ostentazione di forza. Infatti, la cosa più strana, era che essi non sembravano affatto curarsi più di tanto del granchio. Sferravano attacchi, e poi, col fare degli animali, si fermavano un attimo, quasi guardandosi intorno (parevano fermarsi e passare ad altro). Disinteressandosi quasi – gabbiani, con queste zampe palmate, quasi ridicole, quasi da un lottatore ai goffi piedi palmati – disinteressandosi quasi della giustezza e del fine dei propri colpi. Eppure, meticolosamente, staccarono una a una, tutte le zampe del granchio, terminando - beffa - proprio con le chele che tanto provavano a difendersi, punto forte della vittima: quelle anteriori, ostinate a lottare fino alla fine. Questo granchio, in questa ridicola posizione di difesa, con le zampette posteriori basse, le chele in alto, aspettando di poter colpire, vidi soccombere: sotto un becco troppo resistente, sotto colpi troppo rapidi.
Con un altro paio di colpi, lo misero sotto-sopra e lo spolparono in qualche secondo.
Ripensai a Grizzly man di Werner Herzog: “non vedo”, diceva così pressapoco la voce fuori campo del regista, “nel volto dell'orso un residuo di umanità... vedo un essere d'istinto”. Nessuno si sognerebbe di trovare della perfidia sotto le penne candide dei gabbiani, con le loro zampe ridicolmente palmate che nuotano lentamente sotto l'acqua, ora che sono sazie della preziosa carne di granchio.
È solo che, vedendo il biancume delle carne di granchio, questa morte pulita, a-sanguigna, ho avvertito un grido che, afferrandomi dal suo mucchietto di ossa, mi trascinava in quest'impotenza subita in maniera quasi superficiale.
Un grido che durò per tutta ieri. Non vidi, infatti, nessuna anima involarsi, ad un certo punto... il che è ovvio, ma nel senso che: non vidi il termine della sua sofferenza. Non notai la morte, non notai uno stacco. Da essa al banchetto, solo continuità. Mi piace pensare che la sua vita non l'ha ancora abbandonato; che forse oggi, quando il pescatore, tirando pesantemente il telo, farà cadere senza curarsene le sue ridicole e forse irriconoscibili frammenti in fondo al canale verdastro, si ricomporrà, ritrovando in fondo alla Laguna la sua vita, il mio pensiero.

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006