Saturday, January 12, 2013

D'Annunzio anno zero.


Benché volesse "torcere il collo all'eloquenza della lingua aulica, anche a rischio di una controeloquenza", Montale riteneva D'Annunzio un poeta da attraversare, vincendolo.
D'Annunzio più di tutti sa porre un postere connazionale nella situazione sconfortevole di dover essere l'erede d'una italiano ricercato. Una lingua di cui riuscire ad essere padrone, attingendo a tutte le fonti - presentandosi nell'attualità più pressante ricollegandosi tuttavia ad un passato da rivitalizzare.
Perché la letteratura di D'Annunzio vive di paradossi. Il maggiore è quello d'una lingua ampollosa ed artificiosa, una lingua di riferimento perché retorica; ma anche di un'immaginazione capace di sconquassarne la struttura e di rilanciarsi, a volte a discapito della coerenza e persino dell'ideologia conclamata, in virtù di un ordine interno costituito interamente dal dall'aspirazione superomistico alla bellezza. 

"Così complessa, l'intelligenza di Giorgio Aurispa si
distingueva per una incalcolabile abondanza di pensieri e
d'imagini, per una rapidità fulminea nell'associare gli uni e le
altre, per una facilità estrema nel construire stati nuovi della
sensazione organica, stati nuovi del sentimento. Eccelleva nel
metodo di far servire il noto a comporre l'ignoto.
Essendo per solito molto forte la pressione ed essendo i più alti
plessi infinitamente intricati, l'onda nervosa potentissima
invadendoli diffondevasi non soltanto nei canali più permeabili,
ma anche in un gran numero di canali meno permeabili, in un
gran numero di ramificazioni lontane; ciò è a dire: l'onda
percorreva non soltanto le vie già battute dalle esperienze d'una
serie di avi ma anche le vie di recente aperte dalle esperienze
individuali e quelle fino allora chiuse. Così lungo i lidi un flutto
più gagliardo non pure bagna quel lembo di sabbia già tocco dal
flutto precedente ma l'oltrepassa e invade la sabbia vergine; e un
terzo flutto, più gagliardo ancóra, oltrepassando le tracce del
primo e del secondo, fa una conquista più larga.
Da una tal diffusione risultavano stati intellettuali amplissimi e
complicatissimi: tanto più nuovi quanto più lungi dal centro era l'energia della carica"
(Gabriele D'Annunzio, Trionfo della morte, 3, 6).

La scrittura di D'Annunzio vive dell'eccesso, e questo primariamente nel senso più lato possibile. Probabilmente per qualunque altro autore, l'organicismo nella descrizione delle sensazioni avrebbe cozzato con l'anelito all'ideale. Ma D'Annunzio è il più colto e il meno pensatore dei letterati: per lui, post-moderno ante litteram, ciò che offre il presente, pur nelle derive scientiste, non può limitare, ma semmai accrescere, la forza della lingua e delle sue espressioni. Può quindi piegare a sé il coevo sensismo positivista francese e farlo convivere, alla fine del romanzo, con un nietzschianesimo per lo più di facciata, creando un legame inedito e palesemente contrario alle intenzioni dell'autore dell'amato Zaratustra. Perché questo è il senso dell'impoverimento del Nietzsche di D'Annunzio (fin quasi alla pateticità del successivo Le vergini delle Rocce): la mancanza di un momento critico-negativo. 
Ma D'Annunzio scrittore, restando prigioniero della sua stessa ideologia ed esaltandola per mezzo della sola lettera, si trova obbligato, quasi per una forza oscura ma squisitamente letteraria (romanzesca), a negativizzare il protagonista, quindi ad aprire la sua stessa ideologia all'opposto: a creare cioè un'inversione totalmente negativa all'interno del romanzo stesso e ancor di più all'interno dello stesso protagonista (e talvolta con un cambiamento brutale anche negli altri personaggi), ad invertire la tendenza (appunto in un trionfo della morte, che resta comunque evocativamente un ossimoro).
Ciò si evince in modo chiaro, più che nello Sperelli smascherato (inconsciamente durante l'amplesso) e isolato alla fine del Piacere, nell'Aurispa superuomo ed inetto nello stesso tempo.


Sterili conosceva Giorgio Aurispa i suoi amori, sterili le sue
agitazioni come quelle del mare che incominciava a fremere sotto
il vento del crepuscolo. In nessun figliuolo egli avrebbe
perpetuato le impronte della sua sostanza, preservato la sua
effigie, propagato il movimento ascensionale dello spirito verso
l'attuazione di possibilità sempre più alte. In nessuna opera egli
avrebbe adunato l'essenza del suo intelletto, manifestato
armonicamente la potenza delle sue facoltà molteplici, rivelato
interamente il suo universo. La sua sterilità era incurabile. La sua
esistenza si riduceva a un mero flusso di sensazioni, di emozioni,
di idee, privo d'ogni fondamento sostanziale. Egli adombrava
l'uomo di Gautama. La sua personalità non era se non
un'associazione temporanea di fenomeni intorno a un centro,
«come un cane legato a un palo». Egli non poteva aspirare se non
a una fine. E per metter fine a tutti i sogni egli non doveva se non
sognare di non voler più sognare.
(G. D'Annunzio, Trionfo della morte, 6, 3)


L'attualità di D'Annunzio resta quindi nelle sue capacità di assumere un carico di lavoro soverchiante (riconosciute dallo stesso Saba, che ne è pure critico feroce) di congiungere la molteplicità dei propri interessi e delle proprie letture, su cui campeggiano dei giganti (Verga, Flaubert, Carducci, Nietzsche stesso), copiati da D'Annunzio in maniera talmente spudorata da sembrare ormai questione di omaggio creativo. Anzi, da questo punto di vista, D'Annunzio, che fa della citazione un sistema di riscrittura illimitata, sempre capace di ricondurli alla diegesi, è assolutamente insormontabile nella letteratura mondiale ed offre uno dei rarissimi esempi di scrittori sfilosoficizzati e smoralizzati, e che non potranno mai creare scuole od epigoni proprio in virtù della loro radicalità nella mancanza di una posizione poetica originale, se non nella commutazione interna dell'opera (e dunque accordando il suo lascito ad ogni lettore di ogni tempo), oppure, in maniera ancora più oltranzista, nella scomposizione (come nelle poesie) delle parole, specialmente nella poesia (individualismo che sfocia nel panismo fonetico, di cui il risultato dirompente è Meriggio).
Eppure, in D'Annunzio vi è questa tensione non risolta tra le intenzioni, dichiarate in ogni dove, di colpire il pubblico, in particolare (e in maniera sprezzante) quello nuovo delle "leggitrici", e quindi di poter poi assumere la funzione di Vate della Nuova Italia - questo premere sui sentimenti spesso magniloquenti o meschini (il disprezzo nello Sperelli delle masse e del plebeo, e l'esaltazione dell'aristocrazia, che Michelstaedter definì una volta "infame"): non risolta, se non appunto superata letterariamente a tratti in maniera sontuosa e discontinua : in maniera intermittente nel capolavoro Alcyone (appunto "vacanza" del superuomo), nel febbrile Notturno (scritto da D'Annunzio in una cecità momentanea), nella conciliazione dilaniata degli opposti del Piacere e del Trionfo, ed ancora in talune novelle giovanili: in particolare in questa di Terra Vergine, che egli neppure riprese nelle Novelle della Pescara. D'Annunzio resta dunque un autore i cui slanci restano ancora tutti da scoprire nelle sue sterminate carte, da riattualizzare e forse, nel senso del suo post-modernismo decadente, copiare. Questo sarebbe il compito di un epigono dannunziano.


No comments:

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006