Saturday, January 26, 2013

Ma rencontre avec Abbas Kiarostami.




« Si seulement j’étais un pigeon…ce monde est trop petit pour aimer, trop petit ! ».
Farrokhzad, Ce petit monde, p. 255

Il n'y a mouvement que si la totalité n'est ni donnée ni donnable.
(G. Deleuze, Cinéma 1)
 

 Au sein d'un atelier artistique, j'ai eu l'occasion de rencontrer Abbas Kiarostami, et surtout de passer avec lui une matinée.
Le sujet de l'atelier était "l'hiver", et en particulier "janvier".
Mais, en plus de ce sujet retenu, de cet axe commun décliné singulièrement et pluriellement par les étudiants, dans les recommandations (au sens étymologique de re- (intensif) et accommandare, donner en garde plutôt que « commander ») que Kiarostami donnait dans le calme de son persan, sur toutes s’est imposée à mes yeux cette recherche de la stabilité dans les plans: une stabilité laissant le libre dégagement d’un mouvement non-biaisé en amont par l'artiste. Une claire position non pas en faveur d’un style expressif à privilégier, mais une lutte contre la gratuité du geste artistique, contre une esthétique violente. « Rien n’est moins simple que d’être simple », se dit dans Copie Conforme

Un jour, avec un petit groupe et grâce à un ami sculpteur, j’ai eu la chance unique de l'accompagner lors d’une promenade dans la forêt enneigée. 
Avant qu’on arrive, j’avais une place étrange, une place marginale ou peut-être d’exception : dans la voiture, cette Voiture comme « boite à regard » (dit Nancy dans L'Evidence du film), voire dans le siège arrière, rarement assigné dans vos films, place impossible comme poste d’acteur, où la parole viendrait de derrière, sans égalité possible. La voiture est aussi le lieu de ce tournage imaginaire de l’enfant, à partir justement du siège arrière, dans le deuxième volet (Et la vie continue) de sa trilogie, dans ce film charnière du passage entre un cinéma fait par les enfants et les adultes dans sa cinématographie : c’est le lieu où ils communiquent et où il y a une relation et synchronique entre des non-égaux, et diachronique de passage des consignes, puisque la figure de l'enfant va dispaître.
En revanche, à partir de l'arrière, j'ai pu voir son regard : j'a suivi la ligne du profil de Kiarostami à droite, à gauche – et devant, j'ai cherché dans son ferme regard le mouvement du feuillage. J'ai ensuite regardé dans l’écran de sa caméra (posée soigneusement sur le tableau de bord avec une écharpe comme socle improvisé, pour que les accélérations ne lui créent pas de faux mouvement), comme pour en saisir un secret. 

Puis, une fois arrivés dans la foret, il m'a conduit en me prenant le pas. Et moi, le poursuivant ou poursuiveur, j'ai dû emboiter mes pas aux siens, et surtout éviter d’augmenter le pas pour le suivre (et puis, pour aller où sans son guide ?). 
J'ai eu l'occasion de l'arrêter une fois, en regardant des feuilles mortes dont la branche envahissait plus que d'autre son chemin. J'avais remarqué comment ni l'automne ni l'hiver les avaient faites tomber, et qu'elles allaient sans doute attendre le printemps pour se détacher du lieu de leur mort. Kiarostami a hoché la tête et dit qu'elles attendent bien de voir les jeune feuilles pousser pour être sûres de leur laisser la place.


Nourri de poésie persane et dans mes yeux le documentaire Roads of Kiarostami, vu quelques jours auparavant, j’ai alors marqué ce haïku (qui n'a pas son courage d'être en vers libre), en anglais, puisque c'est la langue par laquelle nous communiquions :

Behind your distance
An irretrievable path
No hesitation.

Au retour en ville, nous étions devant une voiture garée : une des celles dont les détails sont aujourd'hui exposés. Il filmait et photographait de la neige fondant sur les vitres d’une voiture, dont on apercevait mal l'habitacle. 
Une dame s'arrêta pour me demander "que voulait cet étrange et mal habillé Monsieur qui prenait de la neige sur les voitures en photo, et pourquoi, et s'il avait des mauvaises intentions" (comme si elle voyait sa caméra filmant un plus-loin-du-champ malin). En la priant de ne pas le déranger, je lui ai dit qu'un hors-champ de la profondeur sur l'objet ne l'aurait pas intéressé, son hors champ est un hors champ de l'invisible, un hors champ du spectateur et non pas un hors-champ du monde filmé.

Saturday, January 12, 2013

D'Annunzio anno zero.


Benché volesse "torcere il collo all'eloquenza della lingua aulica, anche a rischio di una controeloquenza", Montale riteneva D'Annunzio un poeta da attraversare, vincendolo.
D'Annunzio più di tutti sa porre un postere connazionale nella situazione sconfortevole di dover essere l'erede d'una italiano ricercato. Una lingua di cui riuscire ad essere padrone, attingendo a tutte le fonti - presentandosi nell'attualità più pressante ricollegandosi tuttavia ad un passato da rivitalizzare.
Perché la letteratura di D'Annunzio vive di paradossi. Il maggiore è quello d'una lingua ampollosa ed artificiosa, una lingua di riferimento perché retorica; ma anche di un'immaginazione capace di sconquassarne la struttura e di rilanciarsi, a volte a discapito della coerenza e persino dell'ideologia conclamata, in virtù di un ordine interno costituito interamente dal dall'aspirazione superomistico alla bellezza. 

"Così complessa, l'intelligenza di Giorgio Aurispa si
distingueva per una incalcolabile abondanza di pensieri e
d'imagini, per una rapidità fulminea nell'associare gli uni e le
altre, per una facilità estrema nel construire stati nuovi della
sensazione organica, stati nuovi del sentimento. Eccelleva nel
metodo di far servire il noto a comporre l'ignoto.
Essendo per solito molto forte la pressione ed essendo i più alti
plessi infinitamente intricati, l'onda nervosa potentissima
invadendoli diffondevasi non soltanto nei canali più permeabili,
ma anche in un gran numero di canali meno permeabili, in un
gran numero di ramificazioni lontane; ciò è a dire: l'onda
percorreva non soltanto le vie già battute dalle esperienze d'una
serie di avi ma anche le vie di recente aperte dalle esperienze
individuali e quelle fino allora chiuse. Così lungo i lidi un flutto
più gagliardo non pure bagna quel lembo di sabbia già tocco dal
flutto precedente ma l'oltrepassa e invade la sabbia vergine; e un
terzo flutto, più gagliardo ancóra, oltrepassando le tracce del
primo e del secondo, fa una conquista più larga.
Da una tal diffusione risultavano stati intellettuali amplissimi e
complicatissimi: tanto più nuovi quanto più lungi dal centro era l'energia della carica"
(Gabriele D'Annunzio, Trionfo della morte, 3, 6).

La scrittura di D'Annunzio vive dell'eccesso, e questo primariamente nel senso più lato possibile. Probabilmente per qualunque altro autore, l'organicismo nella descrizione delle sensazioni avrebbe cozzato con l'anelito all'ideale. Ma D'Annunzio è il più colto e il meno pensatore dei letterati: per lui, post-moderno ante litteram, ciò che offre il presente, pur nelle derive scientiste, non può limitare, ma semmai accrescere, la forza della lingua e delle sue espressioni. Può quindi piegare a sé il coevo sensismo positivista francese e farlo convivere, alla fine del romanzo, con un nietzschianesimo per lo più di facciata, creando un legame inedito e palesemente contrario alle intenzioni dell'autore dell'amato Zaratustra. Perché questo è il senso dell'impoverimento del Nietzsche di D'Annunzio (fin quasi alla pateticità del successivo Le vergini delle Rocce): la mancanza di un momento critico-negativo. 
Ma D'Annunzio scrittore, restando prigioniero della sua stessa ideologia ed esaltandola per mezzo della sola lettera, si trova obbligato, quasi per una forza oscura ma squisitamente letteraria (romanzesca), a negativizzare il protagonista, quindi ad aprire la sua stessa ideologia all'opposto: a creare cioè un'inversione totalmente negativa all'interno del romanzo stesso e ancor di più all'interno dello stesso protagonista (e talvolta con un cambiamento brutale anche negli altri personaggi), ad invertire la tendenza (appunto in un trionfo della morte, che resta comunque evocativamente un ossimoro).
Ciò si evince in modo chiaro, più che nello Sperelli smascherato (inconsciamente durante l'amplesso) e isolato alla fine del Piacere, nell'Aurispa superuomo ed inetto nello stesso tempo.


Sterili conosceva Giorgio Aurispa i suoi amori, sterili le sue
agitazioni come quelle del mare che incominciava a fremere sotto
il vento del crepuscolo. In nessun figliuolo egli avrebbe
perpetuato le impronte della sua sostanza, preservato la sua
effigie, propagato il movimento ascensionale dello spirito verso
l'attuazione di possibilità sempre più alte. In nessuna opera egli
avrebbe adunato l'essenza del suo intelletto, manifestato
armonicamente la potenza delle sue facoltà molteplici, rivelato
interamente il suo universo. La sua sterilità era incurabile. La sua
esistenza si riduceva a un mero flusso di sensazioni, di emozioni,
di idee, privo d'ogni fondamento sostanziale. Egli adombrava
l'uomo di Gautama. La sua personalità non era se non
un'associazione temporanea di fenomeni intorno a un centro,
«come un cane legato a un palo». Egli non poteva aspirare se non
a una fine. E per metter fine a tutti i sogni egli non doveva se non
sognare di non voler più sognare.
(G. D'Annunzio, Trionfo della morte, 6, 3)


L'attualità di D'Annunzio resta quindi nelle sue capacità di assumere un carico di lavoro soverchiante (riconosciute dallo stesso Saba, che ne è pure critico feroce) di congiungere la molteplicità dei propri interessi e delle proprie letture, su cui campeggiano dei giganti (Verga, Flaubert, Carducci, Nietzsche stesso), copiati da D'Annunzio in maniera talmente spudorata da sembrare ormai questione di omaggio creativo. Anzi, da questo punto di vista, D'Annunzio, che fa della citazione un sistema di riscrittura illimitata, sempre capace di ricondurli alla diegesi, è assolutamente insormontabile nella letteratura mondiale ed offre uno dei rarissimi esempi di scrittori sfilosoficizzati e smoralizzati, e che non potranno mai creare scuole od epigoni proprio in virtù della loro radicalità nella mancanza di una posizione poetica originale, se non nella commutazione interna dell'opera (e dunque accordando il suo lascito ad ogni lettore di ogni tempo), oppure, in maniera ancora più oltranzista, nella scomposizione (come nelle poesie) delle parole, specialmente nella poesia (individualismo che sfocia nel panismo fonetico, di cui il risultato dirompente è Meriggio).
Eppure, in D'Annunzio vi è questa tensione non risolta tra le intenzioni, dichiarate in ogni dove, di colpire il pubblico, in particolare (e in maniera sprezzante) quello nuovo delle "leggitrici", e quindi di poter poi assumere la funzione di Vate della Nuova Italia - questo premere sui sentimenti spesso magniloquenti o meschini (il disprezzo nello Sperelli delle masse e del plebeo, e l'esaltazione dell'aristocrazia, che Michelstaedter definì una volta "infame"): non risolta, se non appunto superata letterariamente a tratti in maniera sontuosa e discontinua : in maniera intermittente nel capolavoro Alcyone (appunto "vacanza" del superuomo), nel febbrile Notturno (scritto da D'Annunzio in una cecità momentanea), nella conciliazione dilaniata degli opposti del Piacere e del Trionfo, ed ancora in talune novelle giovanili: in particolare in questa di Terra Vergine, che egli neppure riprese nelle Novelle della Pescara. D'Annunzio resta dunque un autore i cui slanci restano ancora tutti da scoprire nelle sue sterminate carte, da riattualizzare e forse, nel senso del suo post-modernismo decadente, copiare. Questo sarebbe il compito di un epigono dannunziano.


Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006