Monday, November 11, 2013

L'utilizzo dell'opposizione "teorico / pratico" come ideologia di potere


Köln, 1945




  • Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. (J. M. Keynes)


  • Il teorico non è (il) pratico.
    Con questa evidenza, si vuol suggerire l'opposizione che, stringendosi progressivamente, diramerà il percorso delle righe seguenti.
    L'origine aneddotica di questo testo è stata una riunione con taluni imprenditori, seduti a discorrere dietro lo stesso tavolo dietro cui vi era anche la mia sedia, su cui ero ovviamente poggiato anch'io. Più di uno di loro, per una sorta di istinto sincronizzatore, ha parlato di "vera vita", riguardante la realizzazione di una determinata attività. La nozione di "vera vita" mi ha illuminato. Non solo perché, naturalmente, nella sua falsa semplicità, non ha senso (ed io, per natura, mi interesserei immediatamente al senso sprigionato dai suoi opposti di "falsa vita", oppure, meglio, una "vera morte"); ma perché mi è parso che in tale crogiolo si annidino delle ideologie di svalutazione di ciò che "non è vero", "non vive". In fondo, al suo livello elementare, si voleva dire (per salvare "la vera vita" dal suo ridicolo, e reintrodurla in un contesto), che siamo in un quadro reale, operativo, "pratico" in fondo, per utilizzare un termine semplice. A ciò dunque, per render credibile ciò che potrebbe sembrare del senso comune, si può opporre il contrario naturale, il teorico.
    Ma il senso comune non è, si spera e si teme al contempo, se con esso si intende una razionalità istintiva dell'uomo.
    Il teorico non è il pratico dunque, e questa è un'ideologia di cui non è facile tracciare la genealogia, e che nondimeno pervade i discorsi ed è foriero di una certa retorica, essa stessa diversamente pratica.
    Si potrebbe pensare che essa provenga da una logica capitalistica, o meglio, dato il fattore di preminenza al pratico, mercantilistica. Il pratico osserva un attaccamento al risultato immediato, che permette a coloro che ne propugnano a tratti la sua priorità, l'idea che essi siano i portatori della storia materiale. Il "nuovo spirito del capitalismo" si è, a certi livelli, alzato invece a talune nozioni teoriche ("progetto" per esempio), oltre alle complesse formalizzazioni degli arnesi di analisi e di performance economiche.
    Una tale lettura dicotomica si trova, oltre alle derive mercantilistiche del capitalismo, similmente anche nel marxismo ortodosso. La tendenza è quella di mettere in risalto il reale, la dialettica materiale della storia, contro l'apparato teorico del capitalismo, fondate sulla riduzione del valore d'uso al valore di scambio, del lavoro vivo al lavoro salariato. Nel marxismo classico, il socialismo diventerà realtà perché emerge da una dialettica già instaurata nella storia. Il teorico è in questo caso l'astrazione dell'economia capitalistica come dell'hegeliansimo, allorché nel mercantilismo, il teorico è l'astrazione intellettuale (una chiara ridondanza), il ritiro dalla dialettica della storia, su cui aver la parvenza di interagire tramite concetti, formule, nozioni, che tendono a non produrre scambi materiali.
    In ambedue i casi, con profondità speculative diverse e con ambizioni diverse, vi è un medesimo disprezzo per l'altro da ciò che pare reale, una simile pretesa a ridurre il teorico all'astrazione, un sottile analogo postulato riguardante la povera fine che toccherà all'apprensione...
    Interessa ora mettere in risalto il valore della vittoria del pratico (reale), nei giudizi dell'ideologia attuale, che potremmo definire molto sommariamente post-capitalistica, identificando con essa una cronologia nuova al capitalismo.
    Ci può essere anzitutto una forma di rivalsa populistica verso coloro che manipolino i concetti, le nozioni, le parole in fondo poco comprensibili. Poiché spesso tali persone non facciano alcunché di pratico, i pratici, i reali, si sentono in grado di contestare questo "sollevamento" da compiti operazionali. E spesso tali compiti essendo ingrati, o per lo meno percepiti in qualche modo come tali, ma pur tuttavia anche capaci di far sentire coloro che li effettuano soddisfatti, dando risultati tangibili, quantificabili e dunque migliorabili, si ha tendenza a calcare il pratico come in effetti ciò che trascina il mondo, ciò che ne detta le condizioni materiali - e infine, poiché senza la materia non vi è consumo di beni (derrate alimentari in primis), e quindi nessuna perseveranza delle condizione di sostentamento durevole per l'umanità, ai ritmi odierni e non solo.
    Ma appunto, cos'è allora il pratico, a cui dobbiamo l'esistenza stessa delle condizioni di una buona teoria, e soprattutto a cui ogni teorico dovrebbe gratitudine e riconoscenza più che agli stessi padri spirituali?
    Si potrebbe allora mettere in discussione l'appartenenza dei due termini ad uno stesso rango - e tuttavia, il pratico e il teorico utilizzato dall'ideologia dominante hanno una caratteristica simile: "non hanno fine", e cioè la loro definizione non trova riposo in elementi, in contesti, in riferimenti, neppure in un'azione (πρᾶγμα), ma si nutre dell'opposizione dell'altro; inoltre, la loro definizione emerge esclusivamente da coloro che si rivendicano esclusivamente pratici, e che spesso tendono a non addomesticarsi a teorie. I teorici sono spesso ben disposti a concedere per lo meno dei coefficienti di praticità delle loro teorie, quand'anche non lo rivendicano in totalità intenzionalmente; l'inverso non è vero.
    La relazione teorico-pratico siffatta è dunque una nozione dettata dal potere, in cui mal si cela una rivalsa secolare, per non dire una rivincita di condizione sociale.
    Ed è questo il problema che affligge il pratico spezzato dal teorico - la mancanza di auto-riflessione: nel pratico "c'è sempre un più pratico", nella tavola attorno a cui era seduto, si poteva sempre rimproverare a coloro che parlavano di "vera vita" di star solo inneggiando alla "vera vita"; e cosi', coloro che coltivano bietole potrebbero ritrovarsi, loro persino e proprio nel momento in cui agiscono, ad essere tacciati di poco pratici qualora non stiano proprio in quel momento ammassando i loro frutti, o seminando. Il momento del pratico ha per eccellenza un ruolo egemonico nella dittatura dell'ideologia sul teorico, e cambia in funzione dell'ultimo "deliverable" considerato dall'interlocutore: questo è il paradosso del pratico, quello di una rivendicazione al gesto muto, a cui ovviamente non c'è parola o indicizzazione per porre fine, non c'è una teoria che sia capace di demarcare il pratico dalla sua infinità di praticità.
    (Si potrebbe generalmente opporre ad un teorico "teorico" la paralisi all'azione, sotto la forma del disprezzo)
    Nel paradosso emerge l'unico grado di verità che emerge dall'utilizzo dell'opposizione: il pratico è esso stesso un concetto teorico; ma il concetto teorico del pratico, osservato dall'ambito pratico (già dunque teorizzato), assegna la vittoria della dicotomia al pratico, il quale vincerà sempre, perché il pratico vede teoricamente il teorico come lontano dal pratico.
    Il pratico della vaga ideologia post-capitalistica si definisce come segue: è tutto quel che non trova fine, dal punto di vista del tangibile cristallizzato materialmente, meglio se all'interno di un meccanismo quantificabile e persino con una buona base di risvolti sociali consolidati e tramandati.
    Il teorico della vaga ideologia post-capitalistica, che propugna per il pratico, è invece tutto quel che si situa al di fuori del focus pratico dell'interlocutore, e che può facilmente essere isolato ed irriso, perché privo di potere.
    La vera vita è sempre altrove.



    Saturday, September 14, 2013

    La dialettica tra i generi all'interno del medesimo dress code e la dominazione maschile

    René Magritte, La Géante.
    La tesi che qui si sosterrà tende a mostrare una dialettica del potere. Tale dialettica è derivata e allo stesso tempo occultata dai "costumi" in senso proprio e figurato. Come "arte del collegare due estremi in relazione" senza pur tuttavia che vi sia un terzo momento conciliante che chiuda trionfalmente, messianicamente ed astrattamente il percorso, essa darà luogo ad un'inversione paradossale dei termini che tuttavia lascerà sbucare un contenuto nuovo del pensiero, possibile (perché non si è ancora sviluppato) e reale (perché esso appare veritiero). E' in tale inversione non contiene il potenziale più fecondo del rapporto dialettico, che è infatti contenuto nell'apertura al senso che l'inversione dialettica impone, e nella seguente necessità di rimettere in gioco il reale stesso attraverso la consapevolezza raggiunta.

    L'espressione anglofona "dress code" indica il codice vestimentario adottato in un dato luogo. Esso appartiene spesso a delle norme non-scritte, et tuttavia in vigore. Nello stesso luogo si tende ad uniformare il dress code per l'uomo e per la donna all'interno del proprio genere. La questione porta appunto sulla differenza dei codici tra i sessi.
    In una banca, l'uomo sarà in giacca e cravatta, la donna in tailleur; in una palestra, l'uomo sarà in pantaloncini e canottiera, la donna sarà ammessa con un pantaloncino magari più corto ed aderente e con un top. Persino tra i creativi la donna può svestirsi di più. A parità di condizioni, alla donna è concessa più nudità che all'uomo. C'è un'unica eccezione, che è estremamente rivelatrice dell'ipocrisia delle convenzioni: il costume da bagno, in cui generalmente la donna copre oltre alla zona genitale anche il seno (se la tendenza è destinata a svanire con il topless pare incerto oggi). In fine, si tende dunque a coprire i segni delle differenze sessuali, come se il petto maschile fosse la condizione normale e il seno femminile un segno della differenza sessuale.
    Nella nozione di dress code risiede il limite di ciò che è considerato "decente", e al contempo il permesso per sdoganare delle differenze di genere. Ma chi stabilisce il dress code, i dress code? L'uomo, la donna, entrambi, il buon senso, i luoghi ? 
    Abbiamo ottime ragioni per pensare che sia l'uomo la tesi dialettica - che sia stato l'uomo, che per l'appunto "ha spogliato" la donna il più possible spingendola a giocare sulle nudità e accentuandone le differenze (come dimostrano le maggiore varietà di differenze vestimentarie), mentre egli tende ad azzerare verso i propri simili il più possibile le differenze e anzi a limare il corpo degli uomini. Più che di omosessualità chiaramente repressa, temiamo si tratti proprio di una ricaduta dialettica (il vuoto dialettico che spinge ad andare oltre il rapporto dei due termini) dello sguardo su di sé attraverso il presunto sguardo delle donne, che allora hanno tendenza a osservare l'uomo non tanto sulla sua pelle visibile, ma sulla superficie uniformata e occultata dagli abiti, com'è il caso del giacca e cravatta. Il "colletto", poi, e la sua necessità (la differenza tra T-shirt e polo, che è ugualmente la differenza di due dress codes diversi). Il fascino che passa dalla copertura dell'abito è dunque necessariamente maschile, allorché alla donna, in virtù dell'esaltazione delle nudità (o del gioco "vedo/non vedo) a parità di dress code, si potrebbe imputare solo la fantasia vestimentaria, che è in effetti maggiore (tailleur, gonne, pantaloni).

    La conclusione che ne traggo è che la dialettica tra uomo e donna rivelata dal dress code comporta una soggezione della donna allo sguardo dell'uomo (tramite la nudità), e allo stesso tempo una purificazione dei tratti somatici del maschio, che, tramite la maggior copertura del corpo, esalta appunto altri caratteri (il volto, lo sguardo, il carisma, e persino il suo abito), che potremmo definire meno fisici e dunque più "morali".

    Eppure un egualitarismo del dress code è assolutamente impossibile a realizzare oggi, pena di essere tacciati di semplice eccentricità oppure addirittura omesessualità (per l'uomo come per la donna).
    La dialettica di genere eleva lo scontro al sistema di appartenenza, apparentemente in equilibrio.
    Oggi pare che solo nell'underground che si possono trovare segni di performazione virtuosa del senso aperto dalla dialettica (nudismo, androginia,...): eppure queste soluzioni appaiono marginali, quasi esistessero per esserle...





    Saturday, January 26, 2013

    Ma rencontre avec Abbas Kiarostami.




    « Si seulement j’étais un pigeon…ce monde est trop petit pour aimer, trop petit ! ».
    Farrokhzad, Ce petit monde, p. 255

    Il n'y a mouvement que si la totalité n'est ni donnée ni donnable.
    (G. Deleuze, Cinéma 1)
     

     Au sein d'un atelier artistique, j'ai eu l'occasion de rencontrer Abbas Kiarostami, et surtout de passer avec lui une matinée.
    Le sujet de l'atelier était "l'hiver", et en particulier "janvier".
    Mais, en plus de ce sujet retenu, de cet axe commun décliné singulièrement et pluriellement par les étudiants, dans les recommandations (au sens étymologique de re- (intensif) et accommandare, donner en garde plutôt que « commander ») que Kiarostami donnait dans le calme de son persan, sur toutes s’est imposée à mes yeux cette recherche de la stabilité dans les plans: une stabilité laissant le libre dégagement d’un mouvement non-biaisé en amont par l'artiste. Une claire position non pas en faveur d’un style expressif à privilégier, mais une lutte contre la gratuité du geste artistique, contre une esthétique violente. « Rien n’est moins simple que d’être simple », se dit dans Copie Conforme

    Un jour, avec un petit groupe et grâce à un ami sculpteur, j’ai eu la chance unique de l'accompagner lors d’une promenade dans la forêt enneigée. 
    Avant qu’on arrive, j’avais une place étrange, une place marginale ou peut-être d’exception : dans la voiture, cette Voiture comme « boite à regard » (dit Nancy dans L'Evidence du film), voire dans le siège arrière, rarement assigné dans vos films, place impossible comme poste d’acteur, où la parole viendrait de derrière, sans égalité possible. La voiture est aussi le lieu de ce tournage imaginaire de l’enfant, à partir justement du siège arrière, dans le deuxième volet (Et la vie continue) de sa trilogie, dans ce film charnière du passage entre un cinéma fait par les enfants et les adultes dans sa cinématographie : c’est le lieu où ils communiquent et où il y a une relation et synchronique entre des non-égaux, et diachronique de passage des consignes, puisque la figure de l'enfant va dispaître.
    En revanche, à partir de l'arrière, j'ai pu voir son regard : j'a suivi la ligne du profil de Kiarostami à droite, à gauche – et devant, j'ai cherché dans son ferme regard le mouvement du feuillage. J'ai ensuite regardé dans l’écran de sa caméra (posée soigneusement sur le tableau de bord avec une écharpe comme socle improvisé, pour que les accélérations ne lui créent pas de faux mouvement), comme pour en saisir un secret. 

    Puis, une fois arrivés dans la foret, il m'a conduit en me prenant le pas. Et moi, le poursuivant ou poursuiveur, j'ai dû emboiter mes pas aux siens, et surtout éviter d’augmenter le pas pour le suivre (et puis, pour aller où sans son guide ?). 
    J'ai eu l'occasion de l'arrêter une fois, en regardant des feuilles mortes dont la branche envahissait plus que d'autre son chemin. J'avais remarqué comment ni l'automne ni l'hiver les avaient faites tomber, et qu'elles allaient sans doute attendre le printemps pour se détacher du lieu de leur mort. Kiarostami a hoché la tête et dit qu'elles attendent bien de voir les jeune feuilles pousser pour être sûres de leur laisser la place.


    Nourri de poésie persane et dans mes yeux le documentaire Roads of Kiarostami, vu quelques jours auparavant, j’ai alors marqué ce haïku (qui n'a pas son courage d'être en vers libre), en anglais, puisque c'est la langue par laquelle nous communiquions :

    Behind your distance
    An irretrievable path
    No hesitation.

    Au retour en ville, nous étions devant une voiture garée : une des celles dont les détails sont aujourd'hui exposés. Il filmait et photographait de la neige fondant sur les vitres d’une voiture, dont on apercevait mal l'habitacle. 
    Une dame s'arrêta pour me demander "que voulait cet étrange et mal habillé Monsieur qui prenait de la neige sur les voitures en photo, et pourquoi, et s'il avait des mauvaises intentions" (comme si elle voyait sa caméra filmant un plus-loin-du-champ malin). En la priant de ne pas le déranger, je lui ai dit qu'un hors-champ de la profondeur sur l'objet ne l'aurait pas intéressé, son hors champ est un hors champ de l'invisible, un hors champ du spectateur et non pas un hors-champ du monde filmé.

    Saturday, January 12, 2013

    D'Annunzio anno zero.


    Benché volesse "torcere il collo all'eloquenza della lingua aulica, anche a rischio di una controeloquenza", Montale riteneva D'Annunzio un poeta da attraversare, vincendolo.
    D'Annunzio più di tutti sa porre un postere connazionale nella situazione sconfortevole di dover essere l'erede d'una italiano ricercato. Una lingua di cui riuscire ad essere padrone, attingendo a tutte le fonti - presentandosi nell'attualità più pressante ricollegandosi tuttavia ad un passato da rivitalizzare.
    Perché la letteratura di D'Annunzio vive di paradossi. Il maggiore è quello d'una lingua ampollosa ed artificiosa, una lingua di riferimento perché retorica; ma anche di un'immaginazione capace di sconquassarne la struttura e di rilanciarsi, a volte a discapito della coerenza e persino dell'ideologia conclamata, in virtù di un ordine interno costituito interamente dal dall'aspirazione superomistico alla bellezza. 

    "Così complessa, l'intelligenza di Giorgio Aurispa si
    distingueva per una incalcolabile abondanza di pensieri e
    d'imagini, per una rapidità fulminea nell'associare gli uni e le
    altre, per una facilità estrema nel construire stati nuovi della
    sensazione organica, stati nuovi del sentimento. Eccelleva nel
    metodo di far servire il noto a comporre l'ignoto.
    Essendo per solito molto forte la pressione ed essendo i più alti
    plessi infinitamente intricati, l'onda nervosa potentissima
    invadendoli diffondevasi non soltanto nei canali più permeabili,
    ma anche in un gran numero di canali meno permeabili, in un
    gran numero di ramificazioni lontane; ciò è a dire: l'onda
    percorreva non soltanto le vie già battute dalle esperienze d'una
    serie di avi ma anche le vie di recente aperte dalle esperienze
    individuali e quelle fino allora chiuse. Così lungo i lidi un flutto
    più gagliardo non pure bagna quel lembo di sabbia già tocco dal
    flutto precedente ma l'oltrepassa e invade la sabbia vergine; e un
    terzo flutto, più gagliardo ancóra, oltrepassando le tracce del
    primo e del secondo, fa una conquista più larga.
    Da una tal diffusione risultavano stati intellettuali amplissimi e
    complicatissimi: tanto più nuovi quanto più lungi dal centro era l'energia della carica"
    (Gabriele D'Annunzio, Trionfo della morte, 3, 6).

    La scrittura di D'Annunzio vive dell'eccesso, e questo primariamente nel senso più lato possibile. Probabilmente per qualunque altro autore, l'organicismo nella descrizione delle sensazioni avrebbe cozzato con l'anelito all'ideale. Ma D'Annunzio è il più colto e il meno pensatore dei letterati: per lui, post-moderno ante litteram, ciò che offre il presente, pur nelle derive scientiste, non può limitare, ma semmai accrescere, la forza della lingua e delle sue espressioni. Può quindi piegare a sé il coevo sensismo positivista francese e farlo convivere, alla fine del romanzo, con un nietzschianesimo per lo più di facciata, creando un legame inedito e palesemente contrario alle intenzioni dell'autore dell'amato Zaratustra. Perché questo è il senso dell'impoverimento del Nietzsche di D'Annunzio (fin quasi alla pateticità del successivo Le vergini delle Rocce): la mancanza di un momento critico-negativo. 
    Ma D'Annunzio scrittore, restando prigioniero della sua stessa ideologia ed esaltandola per mezzo della sola lettera, si trova obbligato, quasi per una forza oscura ma squisitamente letteraria (romanzesca), a negativizzare il protagonista, quindi ad aprire la sua stessa ideologia all'opposto: a creare cioè un'inversione totalmente negativa all'interno del romanzo stesso e ancor di più all'interno dello stesso protagonista (e talvolta con un cambiamento brutale anche negli altri personaggi), ad invertire la tendenza (appunto in un trionfo della morte, che resta comunque evocativamente un ossimoro).
    Ciò si evince in modo chiaro, più che nello Sperelli smascherato (inconsciamente durante l'amplesso) e isolato alla fine del Piacere, nell'Aurispa superuomo ed inetto nello stesso tempo.


    Sterili conosceva Giorgio Aurispa i suoi amori, sterili le sue
    agitazioni come quelle del mare che incominciava a fremere sotto
    il vento del crepuscolo. In nessun figliuolo egli avrebbe
    perpetuato le impronte della sua sostanza, preservato la sua
    effigie, propagato il movimento ascensionale dello spirito verso
    l'attuazione di possibilità sempre più alte. In nessuna opera egli
    avrebbe adunato l'essenza del suo intelletto, manifestato
    armonicamente la potenza delle sue facoltà molteplici, rivelato
    interamente il suo universo. La sua sterilità era incurabile. La sua
    esistenza si riduceva a un mero flusso di sensazioni, di emozioni,
    di idee, privo d'ogni fondamento sostanziale. Egli adombrava
    l'uomo di Gautama. La sua personalità non era se non
    un'associazione temporanea di fenomeni intorno a un centro,
    «come un cane legato a un palo». Egli non poteva aspirare se non
    a una fine. E per metter fine a tutti i sogni egli non doveva se non
    sognare di non voler più sognare.
    (G. D'Annunzio, Trionfo della morte, 6, 3)


    L'attualità di D'Annunzio resta quindi nelle sue capacità di assumere un carico di lavoro soverchiante (riconosciute dallo stesso Saba, che ne è pure critico feroce) di congiungere la molteplicità dei propri interessi e delle proprie letture, su cui campeggiano dei giganti (Verga, Flaubert, Carducci, Nietzsche stesso), copiati da D'Annunzio in maniera talmente spudorata da sembrare ormai questione di omaggio creativo. Anzi, da questo punto di vista, D'Annunzio, che fa della citazione un sistema di riscrittura illimitata, sempre capace di ricondurli alla diegesi, è assolutamente insormontabile nella letteratura mondiale ed offre uno dei rarissimi esempi di scrittori sfilosoficizzati e smoralizzati, e che non potranno mai creare scuole od epigoni proprio in virtù della loro radicalità nella mancanza di una posizione poetica originale, se non nella commutazione interna dell'opera (e dunque accordando il suo lascito ad ogni lettore di ogni tempo), oppure, in maniera ancora più oltranzista, nella scomposizione (come nelle poesie) delle parole, specialmente nella poesia (individualismo che sfocia nel panismo fonetico, di cui il risultato dirompente è Meriggio).
    Eppure, in D'Annunzio vi è questa tensione non risolta tra le intenzioni, dichiarate in ogni dove, di colpire il pubblico, in particolare (e in maniera sprezzante) quello nuovo delle "leggitrici", e quindi di poter poi assumere la funzione di Vate della Nuova Italia - questo premere sui sentimenti spesso magniloquenti o meschini (il disprezzo nello Sperelli delle masse e del plebeo, e l'esaltazione dell'aristocrazia, che Michelstaedter definì una volta "infame"): non risolta, se non appunto superata letterariamente a tratti in maniera sontuosa e discontinua : in maniera intermittente nel capolavoro Alcyone (appunto "vacanza" del superuomo), nel febbrile Notturno (scritto da D'Annunzio in una cecità momentanea), nella conciliazione dilaniata degli opposti del Piacere e del Trionfo, ed ancora in talune novelle giovanili: in particolare in questa di Terra Vergine, che egli neppure riprese nelle Novelle della Pescara. D'Annunzio resta dunque un autore i cui slanci restano ancora tutti da scoprire nelle sue sterminate carte, da riattualizzare e forse, nel senso del suo post-modernismo decadente, copiare. Questo sarebbe il compito di un epigono dannunziano.


    Sappho

    Sappho
    "Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

    Sehnsucht

    Sehnsucht
    Berlinale 2006