Saturday, May 21, 2011

L'ontologia della luce nell'era della sua smaterializzazione.



Durante un'accorata partecipazione emotiva in un film carico di effetti speciali e fondato su di essi, capita di chiedersi che effetto si avrà ad una visione dello stesso tra qualche anno. Se la cartapesta o le macchine semoventi trovano il limite nella meccanica dei movimenti, diverso è il caso di oggi. Durante la visione di Avatar, mi è capitato di chiedermelo.
In una discussione avvenuta qualche tempo fa, mi è capitato di intuirne una risposta, pur non avendone i mezzi, il tempo e la voglia di approfondirla analiticamente.

Per dirla d'una formula: la tecnica degli effetti speciali creati con la computer grafica è infinitamente perfezionabile, perché il riflesso degli effetti di luce sulla materia è indefinitamente diverso da quello di qualunque riproduzione o forse anche studio sulla luce (volendo, quindi, si può applicare anche al realismo della pittura, benché in tal caso non sia possibile la correlazione, come in Avatar, con l'universo fotografico. O comunque un'unione nel quadro di fotografia e colore resterebbe da fare).

La tecnica del motion capture, in effetti, dice ancor di più su un'ontologia della luce all'epoca della sua (della luce) derealizzazione tecnica. Se nella motion capture (degli albori, come nei primi videogiochi) si collegano i movimenti di un uomo in diversi punti-chiave per catturarne il suo movimento (e che rende possibile la fluidità degli uomini-gatto del film), in questo caso il sensore coglie una luce emessa artificialmente, che non illumina, ma segnala. Offre un segno per la ricostruzione, che non deve però nulla alla luce. Non diversamente lo sono quelli utilizzati in Avatar: sebbene non siano presenti emissioni luminose. In ogni caso è il puro moviemto che è catturato dalle macchine da prese, e non la materia che lo effettua. Può dunque esistere un movimento senza luce. Una macchina da presa che colga, invece (come in qualsiasi altro film) il corpo che si sposta, riprenderebbe la luce che riflette tutti i punti del corpo, introducendone (paradossalmente) le oscurità che lo rendono reale, ne conseguono i contorni all'interno della totalità dei punti stessi.
La realtà è infatti l'oscurità nei punti, che ne dà lucidità, effetti, rilievi, lunghezze d'onda diversi di colori "reali", complessi.
Vi è qui allora un'ulteriore differenziazione dalla fotografia, dal cinema di conseguenza e dalla pittura. Infatti quest'ultima è direttamente perché essa l'è su una superficie fisica (e dunque entra in contatto con la luce dell'ambiente): il cinema e la fotografia non pixellizzati, invece, che non possiedono una superficie fisica trascurabilie, non fanno che lasciar trasparire ciò che avevano di fronte a loro (come se riprendessero una luce con oggetti fisici). Si fanno esse stesse luce.

Diverso il caso del digitale, in cui si scompone la luce per ricrearla, ma nonostante tutto tramite un'impressione originaria dell'obiettivo.

Friday, May 20, 2011

Qualche considerazione sul mio filosofare

C. D. Friedrich, Monaco vicino al mare
"Benché essere originali e ritrovar se stessi siano termini equivalenti [...] [chi] parte dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell'originalità [...] non ritroverà mai la sua vera natura. Bisogna - non mi si prenda alla lettera - essere originali nostro malgrado" (U. Saba, Quel che resta da fare ai poeti (1911), Tutte le prose, Mondadori, 2001, p. 676-677).




Io mi sto rassegnando all'idea che punto tutta la mia vita e la mia gioventù su sabbia scagliata contro un vento impetuoso, un vento che cambia continuamente direzione, a volte coprendomene il volto e gli occhi, altre volte disperdendola sul litorale adiacente, altre ancora facendola assorbire da un mare che rimane poco increspato.
E' pur vero, allora, che un capolavoro potrebbe salvarmi? Da cosa salva un capolavoro? Crea della sabbia un castello?

E magari 
se lo sarà, come non credo, lo sarà quando sarà troppo tardi per me, quando non sarà più riconoscibile, quando la sua forma materiale sarà come quella spirituale, impalpabile e già da sempre scritta. Non perché desideri un tornaconto, a uno sforzo inutile come quello di gettare sabbia contro vento. Ma perché so che, anche se il mio vento girasse verso la stessa direzione e cumulasse i granelli in pietra miliare, ne sarei io per prima annoiato, e proverei a disfarlo non appena il vento calasse un poco. Se quello che cercassi fosse, un salario come filosofo, questo non servirebbe altro che a rendere l'amore per il sapere meno ardente lungo il giorno; accrescerebbe solo la responsabilità che ho di non sottomettermi a rischi di divagazioni e compiti da "mestiere" del pensiero).

Così, provo a buttare una lenza di parole scelte, pregnanti e sobrie, sempre oltre lo scoglio delle aporie; attendo fino a notte, tra cumulonembi che non causano tempesta, ma restano lì quanto basta a minacciare, coprendo le stelle nel cielo.

(C. D. Friedrich, Monaco vicino al mare)

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006