Pourquoi ne pas se retirer dans une intimité ferme et secrète, sans rien produire d'autre qu'un objet vide et un écho mourant? (M. Blanchot)
Monday, January 25, 2010
Sopruso sul reale
Una mia conoscente, che abita in una simpatica casetta di campagna non distante dalla mia, ha un pollaio che la prodiga costantemente di uova. Mi ha invitato ad approfittarne, qualora ne abbisognassi; conoscendo la sua vita notturna esaltante, diversamente dalla mia, busso alla sua porta alle 13. Evidentemente non aveva ancora desistito dalle lenzuola, visto che venni accolto dalla madre. L'esperienza che sto per narrare, in realtà un'esperienza di pensiero, si è svolta nel breve arco di tempo (non più di 20 secondi, per esser brutale), di attesa, che separò il saluto di sua madre dalla finestra della cucina del primo piano, fino al termine della sua discesa ad aprirmi il portone con una decina di splendide uova fresche tra le mani, le quali, così un po' sporche di terriccio e fango, sembravano cozzare ancor di più con lo stile di vita disinvoltamente cittadino degli altri inquilini.
Mentre sento i passi della gentil-signora allontanarsi dalla finestra, mi sposto sotto il porticato, di stile semplice come in ogni modesta casetta di campagna senza pretese. Tra i due pilastri di fronte alla porta di entrata vi è un lungo filo su cui sono ordinati, sorretti da mollette diabolicamente rosa, diverse tipologie di vestiti. Mi soffermo a guardare il filo che soffre sotto il peso dell'umidume dei vestiti; un lontano latrato di cani mi giunge da molto più giù, un leggero fruscio degli alberi lo accompagna dando al tutto una scena graziosa di quiete mattinale, in cui il solo pensiero che mi accompagna, almeno fino a poco prima tale “richiamo” animale dal profondo, è aspettare le uova e tornare a casa da mia madre che, al momento in cui uscii di casa, pochi minuti prima, posava con splendida abitudine il poggiapentole sul tavolo.
Durante l'esattezza di una scena simile, in cui piazza pulita è fatta di ciò che ricorre nel mio vivere quotidiano, tra me e quello che cerco di pensare, dire e scrivere, di fronte all'immutabilità e quasi all'eternità di uno spettacolo che potrebbe darsi infinite volte, sempre differito, ma sempre uguale nella sua auto-sufficienza, mi viene da pensare, da dire e da scrivere che ogni tentativo di scegliere, centellinare e affastellare concetti per esprimere coerentemente ciò che mi circonda o anche solo ciò che sembra che io abbia dentro, non si rivela che ogni volta inutile di fronte allo spettacolo disarmante di ciò che mi impatta, del suo corso solitario e indifferente a me. Ma, appunto, mi piacerebbe provare a dare un significato a questo “negativo” che provo non tanto in una sorta di inno alla stolidità delle cose o della perfezione del creato, della natura (che è l'unico lato negativo dell'Iperione, perché consolatorio e irrevocabile); un significato che corrisponda, di fatto, all'idea di far sorgere queste sensazioni a livello dell'invenzione, della trovata, della solitudine del dire che, creatore di un atto estetico assolutamente gratuito, possa lasciare un senso di ritrovata beatitudine soporifera in uno scenario di per sé banale. La vecchia “coscienza prestigiatrice” di cui parlava anche Nietzsche in Ueber Wahrheit und Luege im aussermoralischen Sinne: la potenzialità di giocare col reale e di prendere parola creando nuove metafore, cioè nuovi significati alle cose – ma in questo gioco, la gratuità starebbe non già nella coscienza dell'autore o del lettore, ma nello stesso significato creato, nel gioco alla sconfitta di un racconto perdutamente stupito dalle cose.
Il problema, come si sa, è però che il pensiero viaggia più veloce della riflessione posteriore, e per folgorazioni, intuizioni a-verbali, immagini, schegge di strutture immaginative: mi restò dunque molto tempo ancora, di quei 20 secondi per pensare alla limitatezza di ciò che avrei scritto e persino al dilemma morale se scrivere o no, prima del fine assoluto del mio trovarsi-lì, e sì, consolatorio: le uova insudiciate di vita, tenute in un grembiule a quadrettini verdi e bianchi.
Subscribe to:
Post Comments (Atom)
Sappho

"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)
Sehnsucht

Berlinale 2006
No comments:
Post a Comment