Friday, November 20, 2009

Qualunque a Venezia.


Mura canali ponti assorbono la poca luce piuttosto che riverberarla. La calle, stretta e lunga, spinge verso i passanti incontro. È la città stessa che parla in vece della sua architettura. E la sua fioca illuminazione dei lunghi pomeriggi autunnali, è la tenebra dello spirito. In essa mi perdo e trovo per rincuorarmi solo l'effetto d'ombra che è in me ora, e che riabilita invece, misteriosamente, per un attimo una luce interna. Con l'oscurità, di fronte alle persone a cui sono improvvisato, quelle che devo schivare per passare in un sottoportego, ritorna una mia faccenda che dir bene non so. Il lampione, ritto tra canale e terra, nella sua fierezza lascia rischiarato un tenue orizzonte. Mi inoltro, spostandomi per i più futili motivi poi, nell'ignoto che lascia appena intravedere. I volti delle persone diventano leggeri e io subito li idealizzo, se il mio stato d'animo è allegro o propende all'estro; subito li abbandono con disprezzo non appena, invece, ho buttato in me un poco di quella zavorra lenta che neanche un faro potrebbe rischiarare, abbandonato come sono in acque di nessuno.
La volontà di ricevere luce è in fondo la stessa che mi domanda chiarezza rigore e ambizione, e che da sotto io trasformo in oscurità sregolatezza e involuzione. Mi rendo conto che Venezia è una città mia non tanto dal momento in cui vedo una corrispondenza tra la sua oscurità, tra l'offuscamento e la perversione dell'ombra che Essa procura sul volto dei suoi passanti e il mio spirito ruminante, ma da quello in cui mi dileguo come un cittadino qualunque, indegno ammutinatore di istanze mai sopite – me che continuo a fare finta, come un suo passeggero casuale, che in fondo camminare nelle strettoie conduce, come mi piace pensare e come in fondo la Città mi riserva sempre, a campielli di storia, di socialità, e di appagamento.

Monday, November 09, 2009

La neuroscienza come stregoneria del pensiero


Se le neuroscienze raccolgono e si impongono in meditazioni secolari, come la separazione tra mente e corpo, ciò deriva dalle risposte che riescono a fornire ad annose domande. In questo modo possono giustamente procacciarsi tanto delle fette sempre più ingenti dei fondi alla ricerca, quanto le credenziali del mercato. Il loro avvenire è già tracciato, e sarà brillante.

Ma a quale tipo di domande le neuroscienze rispondono? Ciò è insidioso in quanto ci apre alla genealogia di questa disciplina, come domanda sul valore e sul senso di essa.

Esse constatano empiricamente che nel cervello vi siano innumerevoli sinapsi (e che vi sono più possibilità di connessioni tra esse che atomi nell'universo, com'è noto); scoprona cosa accade quando si assumono droghe, che la sensazione di euforia di un momento è data dalla dopamina. Pur tuttavia, è facile spiegare che tali studi non ci dicono nulla riguardo al funzionamento di ciò che è nel possibile; la disciplina, pur fornendo modelli di pensiero fecondi, non ci invita a modellare i nostri confini interiori nella comprensione razionale, nello stupore, nella narcotizzazione, nell'euforia e nell'attrazione. Come ogni scienza, essa ci salva dalla stregoneria, e cioè dall'approccio magico ai fenomeni naturali. Meglio ancora, bisognerebbe aggiungere, tali studi occultano le esperienze e tendono, con la postura naturalistica, a praticare una stregoneria del pensiero. La donna desiderata è meno la causa cascata di feromoni, che ciò che il peggior misogino della terra rileva in una conversazione al bar con dei negletti di periferia. Ma il problema, si dirà, non è tanto delle neuroscienze quanto della reiscrizione di esse della vita umana. In fondo, appunto, le neuroscienze trattano solo di sinapsi, di ricezioni di feromoni, ecc. La stregoneria, nella sua aura mitica, è un prodotto reazionario per la società e per l'uomo, così come la neuroscienza.
Eppure la neuroscienza non può assumere una funzione ancillare del pensiero: essa pretende già derivare precedentemente la realtà dalla visione sperimentale, che avrebbe invece dovuto essere messa sotto scacco quando in gioco vi è l'orizzonte del proprio comprendersi tramite la modificazione esistenziale di sé.

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006