Tuesday, October 13, 2009

Dal peccato al totem.


Oggi ho un totem a casa. Non è fatto di pelli di animali appaiati su un grosso bastone; non mi guarda con gli occhi eccessivamente appiattiti e sproporzionati di una maschera africana. È un oggetto molto comune, del valore di un decimo del mio stipendio, che, per essere stato sottratto furtivamente a qualcuno, e per essere il centro di convergenza del mio senso di colpa, è ora poggiato in altezza su una poltrona di casa mia, sulla destra del mio televisore, e esattamente di fronte al divano su cui mangio. Convogliando il mio senso di colpa, la sporcizia del mio stato d'animo d'ora, la ritrovo, attraverso le sue forme graziose ed equilibrate, l'ergonomia morbida della sua silouhette, e i colori sgargianti, come un feticcio, un assurdo oggetto spostato dal suo contesto e ritto in piedi, nuovo interlocutore dei miei pomeriggi persi, nuovo simbolo del peccato. Era molto che non pensavo al peccato; lo confinavo a una linea precedente e contemporanea a Dio; ho potuto, cosi', seppellirla nel candore delle mie passeggiate fuori il perimetro parrocchiale, negli sguardi all'altezza asimmettrica della cattedrale di Strasburgo, nei pensieri di altri – artisti, timorosi di Dio. Ma quando si pecca, Dio non c'entra. Il timore di Dio neanche. Il timore nasce dall'aver infranto un ordine, reale più che morale. Il feticcio è qui a dirmi che non ci dovrebbe essere, o che io non dovrei essere qui con lui.

I segnali si facevano più forti paradossalmente, quando ho inforcato la bicicletta e ho conquistato terreno – quando non potevo più essere scoperto. La paura di essere colto di improvviso ha lasciato il posto a una sensazione di persecuzione metafisica. Sono entrato in una sorta di ermeneutica del cattivo: ciò che mi capitava di buono (un semaforo verde) era un motivo per accellerare la mia marcia verso casa, verso la tana; ciò che sembrava non andare bene, era un segno di castigo. La potrei pagare più cara. Il moscone nero pece che mi aspettava a casa sembrava uscito da un acquaforte spaventosa di Goya; la rottura di una lampidina qualche minuto dopo faceva presagire che da quel momento in poi la colpa trascendeva il momento del fatto e l'ordine costituito.

Cosi', ho posto l'oggetto come feticcio. Mi sono messo dei bei vestiti e mi sono messo a mangiare. Tra poco scriverò di questa esperienza del peccato che ritorna dopo molti anni di assenza. Certo, ho peccato anche in questi anni, ma l'ho fatto solo moralmente. Ho lasciato gli oggetti ai loro proprietari; ho rubato persone, stati affettivi, investimenti emotivi; ma l'immeritato non si distingue appunto dal latrocinio che per una reversitibilità e una simmetria nella colpa? L'oggetto, invece, è sempre feticcio. Possedere un oggetto, rinchiudere un animale selvatico in gabbia, o rendere oggetto una persona come l'abduzione, è sempre più difficile perché esso è sempre l'icona di se stessi.

A volte sento questo quando vedo una persona che ho forgiato un po' a mio modo; ma anche allora, vedo il mostro che è in me ma so che non sono tutto io, che di fatto l'abnorme che si è estrinsecato ha comunque voluto un'altra coscienza. E allora non posso farlo feticcio, e il feticcio non si può trasformare in totem. Non posso fare si' che esso i chiami, perché le persone rispondono sempre e ti stupiscono sempre, il totem mi ricorda la mia stasi e nel frattempo la iconizza rigettandomi nel peccato immemoriale che infesterà la mia giornata, prima che domani passi, restituendolo o meno.


Sunday, October 04, 2009

Il sistema e la questione del rifiuto.


“Che non si possa fare tutto” significa nella costruzione di un sistema teoretico (non diversamente dunque a quanto succede nella vita di tutti i giorni – bastano pochi ragguagli, alcuni termini cambiati: “die Ganzes” di cui parla Schelling non dev'essere però appannaggio solo della filosofia, ma è un'esperienza che deve sempre accadere): non si possono comprendere dei concetti e renderli chiari allo stesso tempo; non solo perché ci sono dei concetti operativi, e come dice Fink, è il medesimo di quanto accade nella s-velatezza del vero. Il fatto forse più essenziale è che non si può riprendere tutto quanto è corso nella tradizione che è poi la carne viva del significato delle parole. Non si può pretendere rispondere a tutte le questioni in un sistema, perché il sistema deve, in quanto tale, necessariamente rifondare da zero e dunque certi concetti o filosofemi devono semplicemente svanire. Se si riflette sulla rifiuto (o sulla resistenza), per esempio, si deve forse considerare come inutile le sforzo di spiegare come essa può essere costruttiva. Le coppie di concetti opposti devono saltare come deve farlo l'antinomia stessa. Parlare di costruzione dovrebbe equivalere a rispiegare essenzialmente cosa è “costruzione”. Questo è per l'appunto il compito di un sistema, che non è solo un aggregato organizzato di concetti in grado di rendere conto del tutto (Ganzes) del reale, ma la riformulazione del reale su base sistematiche. Dunque il sistema deve rispiegarsi come tale rispetto alla sua riformulazione del reale ex novo. Si può dunque concepire che, riscrivendo il concetto di rifiuto, si possa fare a meno di considerare l'elemento propositivo o costruttivo del reale. Questo è ciò che certi filosofi tentano e sono spesso accusati di violenza o di non rispondere a domande concrete.

In realtà non c'è nulla di concreto al di là del sistema (idealisticamente inteso), perché il sistema stesso svela la concretezza come un'illusione se pensata fuori dal concetto di totalità creata. La costruzione di un mondo migliore non ha dunque senso se, forse, il concetto di resistenza o rifiuto viene in aiuto per una riformulazione del reale. Voler costruire qualcosa, dal punto di vista del sistema, non significherebbe altro che voler esser fuori dal sistema e dunque auto-contraddirsi.

Ma la resistenza costruisce? Interrogando i concetti, può un sistema negare l'ovvio (un progetto politico, una casa che si sta ultimando dopo mesi di lavori...). Pensiamo di no, pensiamo che si il sistema si completa, non ha bisogno di spiegare il concetto di costruzione. Ma deve aver posto all'interno di esso il possibile per spiegare l'impossibilità di una costruzione in senso corrente.
Poi, va da sé, il sistema è anch'esso una pratica umana (come ogni costrutto umano); deve rendere conto a se stesso, ma non può farlo che rispetto a questo non-senso che esso esclude ma che ritornerà necessariamente ad acciuffarlo appena il sistema dovrà confrontarsi, nella mente dell'autore, del lettore ma anche nella vita propria delle parole, a ciò che è il suo riferimento costante, e cioè la tradizione del vocabolario e la stolida realtà cieca la quale ogni giorno ci arreda la nostra mediocrità del bisogno di esteriorità e spossa il nostro tentativo di assoluta completezza ributtandoci nell'inferno delle nostre ricerche di senso.
Due dimostrazioni eteroclite su tutte:
- Idioterne di Lars Von Trier, in cui il gioco a fare i cretini, gli handicappati, si trasforma alla fine in qualcosa in cui credere, in cui fare fede, atto di professione al momento opportuno: il rifiuto si trasforma in etica che tuttavia non esprime altro che ancora il rifiuto stesso a costruire, anche quando si è soli di fronte a tutti e gli altri hanno abbandonato;
- Le notti bianche di Fëdor Dostoëvskij, in cui il sognatore adolescente, non ha alcun bisogno di rapportarsi realmente alla ragazza che ha di fronte e che è innamorata di un altro. Egli ne diventa anzi, peggio, il confidente, la spalla, la vera schöne Seele schilleriana che resta parossisticamente bella anima oltre più che anima bella. La sua confessione d'amore è in realtà poco più che una boutade, non è un reale confronto con lei o un gesto d'amore, ma il modo per liberarsene e ritornare mestamente in una vita trasognata nella tristezza propria a colui che pur nell'incapacità di amare, nel bisogno di farlo e nella voglia di compierlo, preferisce un "malgrado" all'abisso del rapporto radicalmente esterno. Il letto e la finestra sono cosi' gli strumenti per darsi, come i poli dialettici in un sistema, la comprensione calcolata delle difficoltà di rimanere in sé - ma tuttavia, anche senza compensazione, una via di fuga dal sistema stesso restando ostinatamente in casa.

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006