
Alla fine ci si abitua a tutto.
Non è retorica né saggezza popolare. “Alla fine ci si abitua a tutto” significa: fino alla fine, fino al momento finale, siamo costretti ad abituarci. È proprio quando la morte verrà a suggellare la mestizia dello stare per abituarsi-anche-al-morire, rendendo la vita il più grande paradosso, si scoprirà in un sussulto che ci si abitua finché si è vivi. Solo la morte ne è esente. Abituarsi è la maniera di vivere, di riprodurre tutto una seconda volta, o di poterlo fare in linea di principio. E' una ripetizione accresciuta.
Cercare, nell'esistenza, momenti fugaci e irripetibili non include il vivere secondo abitudine. Non perché le esperienze diventerebbero infine tutte uguali, cioè una parallela o simile all'altra, come credono tanti e credette ahimè anche Il diario di un seduttore di Kierkegaard. La genesi della noia non ha nulla a che vedere con la tranquilla ripetitività dell'abitudine. Il senso di oppressione dei momenti tediosi è socio in affari di quello sereno dell'abitudine: entrambi vogliono il ripetersi all'indefinito. E entrambi producono una crisi nell'equilibrio. Si cerca quindi l'illusione del nuovo, appunto perché tutto, potendo essere rivissuto una seconda volta, ma essendo anche rifuggito, ci dà l'abitudine che non ci si abitua ora, no, non ora, mettiamolo da parte. La prigione data dall'abitudine alla novità è una forma poco raffinata, ma subdola di abitudine – essa ne esce indenne, e continua a mirare il tutto dell'uomo.
La vita è una successione di abitudini, mancate o realizzate. E tale successione, che non è però essa stessa abitudine, è l'abitudine dell'abitudine. Si avverte il passaggio delle abitudini, e con esso del modo di incassare l'arrivo di un nuovo evento, di una nuova abitudine. Forse, ma è difficile stabilirlo con certezza, dalla giovinezza alla vecchiaia c'è appunto questo scemare dell'esaltazione per il non-ancora-visto, una sorta di abitudine all'iniziare ad abituarsi. Ci si esalta per altro, un anziano che si rispetti non si diverte come un ragazzino, o per lo meno non dovrebbe, si penserà; eppure, esaltandoci per altro, se ne conosce già il destino.
A volte, in maniera più subdola invece, gli eventi ci costringono a riabituarci a qualcosa di cui ci eravamo già liberati. L'effetto-droga prodotto dall'assuefazione per le vecchie abitudini rientra in circolo, il corpo la riconosce più forte di prima – e ci sembra ci sia mancata da sempre, e che non aspettavamo di riprenderne il corso. Le forme del corpo di un'adolescente spezzano le catene della vecchiaia; la giovinezza riaccende il corpo, che in fondo visse lo stesso anni prima. Di colpo, la disabitudine alle solite vecchie cose, si scopre abitudine mancata. Non bisogna fare altro che riabituarcisi. È perché forse ci si sente bene solo con questo tipo di abitudine, altre abitudini acquisite con l'età verranno sostituite per sempre. Disabituarsi con un'abitudine prima disabituata, è per l'essere-abitudine insito nell'uomo, l'unica rivalsa sul tempo.
Ma c'è ancora un ultimo tipo di abitudine, che è il più distruttivo. È quando l'abitudine non ne può più di esserci, quando, assuefatti alla ripetitività, noi ci allontaniamo per sempre con disamore dall'oggetto. Quando l'abitudine diventa abitudine per sé, ha bisogno di perseverare, ma l'oggetto non le sembra più adatto. L'abitudine si impadronisce di noi, non possiamo più controllarla. L'incontrollabile nasce soprattutto dalla voglia di perseverare (o dalla necessità dell'abitudine), ma con altri oggetti. Il re cambia corte, ma resta re. Il servo della gleba cambia la coltivazione del suo campo, si trova meglio con quest'altra, gli ritorna la voglia, di coltivarlo, o scopre che in fondo questa vita non fa per lui, e che prenderà i voti.
Con quale diritto noi possiamo dire che tale scelta è la sua, e non della voglia di perseverare l'abitudine, abituandosi con dell'altro?
Non è retorica né saggezza popolare. “Alla fine ci si abitua a tutto” significa: fino alla fine, fino al momento finale, siamo costretti ad abituarci. È proprio quando la morte verrà a suggellare la mestizia dello stare per abituarsi-anche-al-morire, rendendo la vita il più grande paradosso, si scoprirà in un sussulto che ci si abitua finché si è vivi. Solo la morte ne è esente. Abituarsi è la maniera di vivere, di riprodurre tutto una seconda volta, o di poterlo fare in linea di principio. E' una ripetizione accresciuta.
Cercare, nell'esistenza, momenti fugaci e irripetibili non include il vivere secondo abitudine. Non perché le esperienze diventerebbero infine tutte uguali, cioè una parallela o simile all'altra, come credono tanti e credette ahimè anche Il diario di un seduttore di Kierkegaard. La genesi della noia non ha nulla a che vedere con la tranquilla ripetitività dell'abitudine. Il senso di oppressione dei momenti tediosi è socio in affari di quello sereno dell'abitudine: entrambi vogliono il ripetersi all'indefinito. E entrambi producono una crisi nell'equilibrio. Si cerca quindi l'illusione del nuovo, appunto perché tutto, potendo essere rivissuto una seconda volta, ma essendo anche rifuggito, ci dà l'abitudine che non ci si abitua ora, no, non ora, mettiamolo da parte. La prigione data dall'abitudine alla novità è una forma poco raffinata, ma subdola di abitudine – essa ne esce indenne, e continua a mirare il tutto dell'uomo.
La vita è una successione di abitudini, mancate o realizzate. E tale successione, che non è però essa stessa abitudine, è l'abitudine dell'abitudine. Si avverte il passaggio delle abitudini, e con esso del modo di incassare l'arrivo di un nuovo evento, di una nuova abitudine. Forse, ma è difficile stabilirlo con certezza, dalla giovinezza alla vecchiaia c'è appunto questo scemare dell'esaltazione per il non-ancora-visto, una sorta di abitudine all'iniziare ad abituarsi. Ci si esalta per altro, un anziano che si rispetti non si diverte come un ragazzino, o per lo meno non dovrebbe, si penserà; eppure, esaltandoci per altro, se ne conosce già il destino.
A volte, in maniera più subdola invece, gli eventi ci costringono a riabituarci a qualcosa di cui ci eravamo già liberati. L'effetto-droga prodotto dall'assuefazione per le vecchie abitudini rientra in circolo, il corpo la riconosce più forte di prima – e ci sembra ci sia mancata da sempre, e che non aspettavamo di riprenderne il corso. Le forme del corpo di un'adolescente spezzano le catene della vecchiaia; la giovinezza riaccende il corpo, che in fondo visse lo stesso anni prima. Di colpo, la disabitudine alle solite vecchie cose, si scopre abitudine mancata. Non bisogna fare altro che riabituarcisi. È perché forse ci si sente bene solo con questo tipo di abitudine, altre abitudini acquisite con l'età verranno sostituite per sempre. Disabituarsi con un'abitudine prima disabituata, è per l'essere-abitudine insito nell'uomo, l'unica rivalsa sul tempo.
Ma c'è ancora un ultimo tipo di abitudine, che è il più distruttivo. È quando l'abitudine non ne può più di esserci, quando, assuefatti alla ripetitività, noi ci allontaniamo per sempre con disamore dall'oggetto. Quando l'abitudine diventa abitudine per sé, ha bisogno di perseverare, ma l'oggetto non le sembra più adatto. L'abitudine si impadronisce di noi, non possiamo più controllarla. L'incontrollabile nasce soprattutto dalla voglia di perseverare (o dalla necessità dell'abitudine), ma con altri oggetti. Il re cambia corte, ma resta re. Il servo della gleba cambia la coltivazione del suo campo, si trova meglio con quest'altra, gli ritorna la voglia, di coltivarlo, o scopre che in fondo questa vita non fa per lui, e che prenderà i voti.
Con quale diritto noi possiamo dire che tale scelta è la sua, e non della voglia di perseverare l'abitudine, abituandosi con dell'altro?
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