Monday, October 13, 2008

Il riscatto dell'Italia.


Non sta ai discriminati mostrare di essere diversi da come li si dipinge.

Tempo fa ho soggiornato in Albania. Essa ha un fascino non ricattabile, che non chiede riconoscimento. E' quello selvaggio, quello dei forti. Le strettoie di città si abbarbicano ai pendii di colline rocciose. Mucche scheletriche si chinano su erba che cresce all'interno di case diroccate, con bambole infilate alle sporgenze per difendere i luoghi, secondo un'antica inquietante tradizione locale.

Dietro l'indipendenza paesaggistica si cela però una dipendenza culturale ormai allentata. Dietro quegli sbarchi che affliggevano le Puglie ci sono esistenze vissute nostro malgrado sotto il segno dello Stivale. L'Albania viveva all'ombra del nostro Paese, in un bilinguismo di prossimità, televisivo, economico. Oggi, gli albanesi imparano altre lingue (inglese, francese perfino spagnolo) piuttosto che venire in un Paese che li ha largamente discriminati sui canali che loro stessi fruivano (dalla televisione al mercato del lavoro dunque).

E' come se, anche per rispetto agli albanesi, di cui noi eravamo il balcone verso l'Occidente, dovessimo riscattarci. Noi, italiani, Italia.

Sunday, October 05, 2008

Abitudini.


Alla fine ci si abitua a tutto.
Non è retorica né saggezza popolare. “Alla fine ci si abitua a tutto” significa: fino alla fine, fino al momento finale, siamo costretti ad abituarci. È proprio quando la morte verrà a suggellare la mestizia dello stare per abituarsi-anche-al-morire, rendendo la vita il più grande paradosso, si scoprirà in un sussulto che ci si abitua finché si è vivi. Solo la morte ne è esente. Abituarsi è la maniera di vivere, di riprodurre tutto una seconda volta, o di poterlo fare in linea di principio. E' una ripetizione accresciuta.
Cercare, nell'esistenza, momenti fugaci e irripetibili non include il vivere secondo abitudine. Non perché le esperienze diventerebbero infine tutte uguali, cioè una parallela o simile all'altra, come credono tanti e credette ahimè anche Il diario di un seduttore di Kierkegaard. La genesi della noia non ha nulla a che vedere con la tranquilla ripetitività dell'abitudine. Il senso di oppressione dei momenti tediosi è socio in affari di quello sereno dell'abitudine: entrambi vogliono il ripetersi all'indefinito. E entrambi producono una crisi nell'equilibrio. Si cerca quindi l'illusione del nuovo, appunto perché tutto, potendo essere rivissuto una seconda volta, ma essendo anche rifuggito, ci dà l'abitudine che non ci si abitua ora, no, non ora, mettiamolo da parte. La prigione data dall'abitudine alla novità è una forma poco raffinata, ma subdola di abitudine – essa ne esce indenne, e continua a mirare il tutto dell'uomo.
La vita è una successione di abitudini, mancate o realizzate. E tale successione, che non è però essa stessa abitudine, è l'abitudine dell'abitudine. Si avverte il passaggio delle abitudini, e con esso del modo di incassare l'arrivo di un nuovo evento, di una nuova abitudine. Forse, ma è difficile stabilirlo con certezza, dalla giovinezza alla vecchiaia c'è appunto questo scemare dell'esaltazione per il non-ancora-visto, una sorta di abitudine all'iniziare ad abituarsi. Ci si esalta per altro, un anziano che si rispetti non si diverte come un ragazzino, o per lo meno non dovrebbe, si penserà; eppure, esaltandoci per altro, se ne conosce già il destino.
A volte, in maniera più subdola invece, gli eventi ci costringono a riabituarci a qualcosa di cui ci eravamo già liberati. L'effetto-droga prodotto dall'assuefazione per le vecchie abitudini rientra in circolo, il corpo la riconosce più forte di prima – e ci sembra ci sia mancata da sempre, e che non aspettavamo di riprenderne il corso. Le forme del corpo di un'adolescente spezzano le catene della vecchiaia; la giovinezza riaccende il corpo, che in fondo visse lo stesso anni prima. Di colpo, la disabitudine alle solite vecchie cose, si scopre abitudine mancata. Non bisogna fare altro che riabituarcisi. È perché forse ci si sente bene solo con questo tipo di abitudine, altre abitudini acquisite con l'età verranno sostituite per sempre. Disabituarsi con un'abitudine prima disabituata, è per l'essere-abitudine insito nell'uomo, l'unica rivalsa sul tempo.
Ma c'è ancora un ultimo tipo di abitudine, che è il più distruttivo. È quando l'abitudine non ne può più di esserci, quando, assuefatti alla ripetitività, noi ci allontaniamo per sempre con disamore dall'oggetto. Quando l'abitudine diventa abitudine per sé, ha bisogno di perseverare, ma l'oggetto non le sembra più adatto. L'abitudine si impadronisce di noi, non possiamo più controllarla. L'incontrollabile nasce soprattutto dalla voglia di perseverare (o dalla necessità dell'abitudine), ma con altri oggetti. Il re cambia corte, ma resta re. Il servo della gleba cambia la coltivazione del suo campo, si trova meglio con quest'altra, gli ritorna la voglia, di coltivarlo, o scopre che in fondo questa vita non fa per lui, e che prenderà i voti.
Con quale diritto noi possiamo dire che tale scelta è la sua, e non della voglia di perseverare l'abitudine, abituandosi con dell'altro?

"Stufen" di H. Hesse


STUFEN


(von Hermann Hesse)


Wie jede Blüte welktund jede Jugend dem Alter weicht,

blüht jede Lebensstufe,

blüht jede Weisheit auch und jede Tugendzu

ihrer Zeit und darf nicht ewig dauern.

Es muss das Herz bei jedem Lebensrufebereit

zum Abschied sein und Neubeginne,

um sich in Tapferkeit und ohne Trauernin and're,

neue Bindungen zu geben.

Und jedem Anfang wohnt ein Zauber inne,

der uns beschützt und der uns hilft zu leben.

Wir sollen heiter Raum um Raum durchschreiten,

an keinem wie an einer Heimat hängen,

der Weltgeist will nicht fesseln uns und engen,

er will uns Stuf' um Stufe heben, weiten!

Kaum sind wir heimisch einem Lebenskreiseund

traulich eingewohnt,so droht Erschlaffen!

Nur wer bereit zu Aufbruch ist und Reise,

mag lähmender Gewohnheit sich entraffen.

Es wird vielleicht auch noch die Todesstundeuns

neuen Räumen jung entgegen senden:

des Lebens Ruf an uns wird niemals enden.

Wohlan denn, Herz, nimm Abschied und gesunde!




Nella poesia si dice


Es muss das Herz bei jedem Lebensrufe

bereit zum Abschied sein und Neubeginne,


Mi interessa il senso di questo muss. Non è un sollen, un dovere morale. Penso che ci sia (in un certo modo) la chiave della poesia, che mi sembra essere (interpreto io, poi mi dirai), quello del prendere commiato, o meglio del saper prendere commiato da talune fasi della vita. Riprendendo antichi temi epicurei e della saggezza orientale (soprattutto), il comprendere la vita come un percorso a gradini, di cui ogni inizio conserva in sé una positività ogni volta rinvigorita, determina la "beltà" stessa del vivere. Eppure, Es muss das Herz bereit sein. Il cuore deve essere pronto. La cosa bella di questa poesia è che non c'è alcuna morale da dare. Non è un sollen, non è che il cuore deve prepararsi, ma è un obbligo diciamo interno al cuore stesso. Il cuore si prepara al suo obbligo da solo. Tanto più che è messo in evidenza rispetto al duerfen: "und darf nicht ewig dauern". Non è permesso, non è dato du durare in eterno. Ci si sarebbe aspettati un sollen: duerfen, poi sollen. E invece Hesse mi ha stupito. E', in fondo, il cuore stesso che deve, cioè non conosce il suo dovere a tal punto che semplicemente "deve". La risposta di H. Hesse è misteriosa; da un certo punto di vista sembra non dire nulla. E infatti non dice nulla rispetto a come sorpassare le fasi della vita, allorché tutti vorremmo saperlo. Tutti sappiamo che è dura prendere commiato da cose e persone; a volte lo si fa, con dolore, nonostante un miglior inizio si prospetti. Ma non è un decidere. In fondo sembra dire il cuore non ha volontà, il cuore deve. Muss. Tant'è che il poeta alla fine non può che esortare il cuore (significa che non può comandarlo, ma lo esorta, cioè cerca di convincerlo, aspettando, inoltre, da lui una risposta)


Wohlan denn, Herz, nimm Abschied und gesunde!


Qui mi sembrano i maggiori pregi della poesia. C'è, malgrado tutto, un'implicazione soggiacente per me troppo ottimista. Introdotta, guarda caso, da un sollen che contraddice questa logica (illogica) del cuore.


Wir sollen heiter Raum um Raum durchschreiten,>

an keinem wie an einer Heimat hängen,>

der Weltgeist will nicht fesseln uns und engen,> er will uns Stuf' um Stufe heben, weiten!


Che tale Weltgeist ci voglia davvero uns heben, non sono sicuro. Qui c'è ancora quel misto della saggezza antica (e antichissima dell'Oriente) che sottende che ogni gradino sia un innalzamento. Che ogni fase debba essere superata verso il meglio. E che ogni fase successiva sia comunque migliore, per il solo fatto di essere posteriore, a quella precedente. E' vero che l'essere umano si arricchisce delle esperienze. Questo è il lato "adolescenziale" di Hesse, il perché piaccia molto ai giovanissimi (io mi ritengo ancora un adolescente, dunque non è un rimprovere per Hesse, tutt'altro). Però non è una rincorsa al meglio. Potrebbe benissimo trattarsi di una caduta in un vortice. Qui le estetiche del fanciullino e della maturità sembrano, come sempre, collimano. Chi nell'Ursprung, chi nello Zweck, vedono entrambi uno stato idilliaco. Io prenderei il messaggio di Hesse più tragicamente. Il cuore deve. Gli Stufen si susseguono, e ognuno porta commiato e un nuovo inizio gioioso. Questo significa che non abbiamo patria, che a nessuno patria ci attacchermmo mai (e non, adolescenzialmente, che non dobbiamo attaccarci), ma che la nostra patria sarebbe piuttosto questa stessa: l'Erschlaffen. Kaum sind wir heimisch einem Lebenskreise> und traulich eingewohnt,> so droht Erschlaffen! Da qui, il senso del viaggio, che è pare del tutto simile a quello di Baudelaire:

"Reste, si tu peux! Si tu dois, pars!"

Un viaggio della speranza ad ogni viaggio, e non un viaggio per viaggiare.


> Nur wer bereit zu Aufbruch ist und Reise,>


mag lähmender Gewohnheit sich entraffen

Wednesday, October 01, 2008

In a boat to Greece, from my image to me


And I'm now sitting, beside a dusty porthole, just in front of my image reflected in a one meter-mirror. The whole landscape of me is there. One meter is enough, if I'm satisfied of myself. And I am. But my hands on the keyboard of my computer, my mobile phone, my mouse, the handkerchieves I'm going to use, the table affording me a safe ledge to these objects; my real teenager's hair, now soiled because of warm wet air, collapsed with the other ripe hair, the one of my torso. The little muscles are also remembering me the time they were upper, when I was concentrating on them – my image was the image of them straight to the happiness they were there. The beard, always through an albino and Socrates, is now on my cheekbones, able to go close, one day, to my eyes, and finally cover them.
My soul is also there, between the meanders of all this uselessness. Glad it's still there, braver than me to move through the stuff. As long as it stays, it can also take the good part of everything, and I'll try to not resist her
When my image will send me a poor sensation of me, I rise on the chair, farther than now, and, trying to bring in my image in this smaller size, I'll get naked, feeling the empty fullness of my undressed body, where there are no signs of war, where the experiences I had never leaved their trail, and the alibis of my writing will die out.

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006