Saturday, June 07, 2008

"Gomorra", di M. Garrone

In una recensione su un quotidiano nazionale, si ipotizzava, tutt'altro che a torto, che Gomorra sta al 2008 come La dolce vita sta al 1961. Il destino di questo tipo di scrittura (la recensione) è forse quello di una lettura passeggera (come il quotidiano stesso, di cui, infatti, lo stesso supporto cartaceo è fatta per non essere collezionata, mancando il bordo esterno, ed essendo legata al giorno di uscita più che ad una tematica). Importante in questo caso avere l'intuizione giusta, per una riflessione più approfondita; dare uno spunto, più che darne le giuste ragioni. Un articolo su un quotidiano si può infatti ritagliare. Magari perché anche solo gli occhi della contadina, che ci confeziona le uova, gli si poggino su.
La dolce vita ci sembra ora l'affresco di un'epoca – le strade di Vittorio Veneto trabordavano i sogni della borghesia dell'epoca. La dolcezza del vivere ne era anche il dramma, e, ancora, il delirio, l'insensatezza di una vita mondana chiusa in sé - i pescatori, il mostro marino e lo sguardo della fanciulla nel finale ne delineano l'assurdo. La Scampia di Gomorra sembra solo un pezzo dell'Italia, il più squallido, un affresco neo-realista sì, ma al massimo locale. Né il suo dialetto può rappresentare l'Italia, né il suo presente.
E' il camorrista smaltitore di rifiuti che sembra ammiccare in un altra direzione: egli crede che stia a lui risolvere i problemi del Paese. E' stato lui a "mandare l'Italia in Europa".

Se, ancora, Gomorra è La dolce vita di oggi, dobbiamo forse pensare che è anche perché lo sguardo del regista è pertinente al suo oggetto. Entrambi i film sono generalmente "neo-realisti": si potrebbe dire che radicalizzano il neo-realismo classico - che, liberamente, che gettano uno sguardo nuovo sulla realtà di oggi e, così facendo, lo rendono reale. Partendo da questo spunto, sentendo in Gomorra il nostro fiato sempre sul collo dei personaggi, partecipiamo di una vita riversata sulle strade, e a fianco loro, tra il viavai labrintico in palazzi assurdi (costruiti da grandi architetti e con i migliori propositi), ma soprattutto della brutalità dolorosamente sfigata dei sicari. Testimone l'ultima scena, in cui i due giovani dell'immagine qui sopra, legati da un'amicizia a metà tra l'esaltazione e l'incondizionatezza, non volendo sottostare a un boss, vengono trucidati da rozzi ciccioni vestiti a caso con inestitiche canotte arancioni da basket: uccisi senza pietà e a sangue freddo, sbucando da dietro. Se l'Italia è alla deriva, a essa manca anche la grazia. Banalmente, la sensazione è che sarebbe bastato un solo Rambo per ripulire le strade dalle rozze strategie della camorra. Un solo eroe, forte e agile, accorto dietro il muro prima di sparare. I camorristi non ci sanno fare con le armi, escono allo scoperto, sconvulsi. Preparono imboscate rozzolane come i loro abbinamenti in vestiti. E se raggiungono canali politici, è perché la loro "intelligenza" dialoga alla pari con i mediocri burocrati che gestiscono alla bene e meglio le storpiature necessarie al funzionamento della cosa pubblica..

Per questo il film, più che violento, ci fa vedere la miseria (e più profondamente la meschinità) della violenza.
E per di più, gli scampiani camorristi, come tutti i buoni campani, dicono di essere « gente che sente, che prova emozioni », ecco la notifica queste contraddizioni, in simbiosi con le perentorie condanne a morte dei capetti. In parte è vero, perché nel film si riallacciano legami spontaneamente, anche in Gomorra ci sono squarci di bene, se non di verità: l'amicizia, gli applausi al sarto dai lavoratori clandestini. Eppure la camorra si affretta sempre a sopprimerne gli spazi, li raggiunge sempre. Nei modi più improbabili, ne ricopre il senso. E il nuovo neo-realismo (qui diversamente dall'immaginario felliniano e dal simbolismo imposto dal mostro marino alla fine di La dolce vita), ci rivela anche l'unico momento di autentica ribellione interna del film, quando l'assistente al camorrista smaltitore di rifiuti, decide di abbandonare il « mestiere », per via del modo in cui gli era stato comandato di gettare una cassa di pesche offertagli poco prima con amore da un'anziana donna. « Buttale, perché puzzano ». « Questo lavoro non fa per me ». « Noi risolviamo i problemi ». L'ultima battuta raccoglie il non-senso ma non per dare una risposta: che, anche se fosse vero, « non fa per me, io so' diverso ». E ancora, quando il sarto, che decide a sua volta di abbandonare il suo mestiere perché in mano a un imprenditore colluso con la camorra, diventando camionista – e amando il suo precedente mestiere – getta un'occhiata mesta e ancora esperta allo splendido abito di Scarlett Johansonn su un Red Carpet, che sfila sullo schermo televisivo in un autogrill - e poi riparte col tir, senza parola aggiungere. L'Italia sfruttata, svilita, uccisa, prosegue con lui quest'ingrato viaggio senza speranza (viaggio sul camion, andata e ritorno, non-uscita da sé e eterno ritorno a sé), da cui forse però Gomorra stessa, catarticamente attraverso questo film, e socialmente rendendo partecipe del film gli stessi abitanti di Scampia, è riuscita in un intento all'Italia contrario.

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Sappho

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"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

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Berlinale 2006