Wednesday, February 22, 2012

Celui qui n'a pas vécu les années avant la Révolution, ne connaît pas la douceur de vivre

Rosie Hardy's "Outcasted"
"Ecco perché spesso vediamo diventare folli coloro che si sono trovati nella condizione di esercitare questo diritto degli dèi [la libertà]: afferrati dalla follia e dall'arbitrio, cercano di affermare la libertà con azioni alle quali manca ogni impronta di necessità interiore e che per tale motivo sono le più contingenti. La necessità è l'intimo della libertà. E' per questo che non si può dar ragione dell'azione veramente libera: essa è così perché è così, puramente e semplicemente, è incondizionata e perciò necessaria. Ma, in quanto tale, la libertà non è di questo mondo. Infatti, coloro che si occupano del mondo possono esercitarla solo raramente o addirittura mai" (F.W.J. Schelling, Clara, Rovereto, Zandonai, 2009, p. 42)


Posso dire di aver partecipato al mio tempo? Di aver vissuto il mio presente ubicato in un oggi speranzoso d'un avvenire migliore per me e per altrui, d'aver contribuito alla mia Storia secondo i miei ideali creati in un dialettico divenire-sociale?
Questo blog non compone, infatti, proprio un ritratto contrario, ovvero quello di una scrittura accovacciata, recroquevillée su se stessa, un autodafé della propria incapacità di comunicare direttamente agli altri e per gli altri, un perpetuo e voluttuoso irriconoscibile spiegarsi con se stesso al fine di perseverare il proprio io nel penoso sussiego di occasioni ispiratrice della scrittura? Non rappresenta proprio una sorta di scrittura a-sociale, o meglio anomica, una ripetizione scritta dell'esperienza di un suicidio che la società stessa mi ha imposto, limitandomi ad un lavoro teoretico e solitario e in fondo a questo blog?

Cosa ho fatto, insomma, in questi anni, per accompagnare il mio tempo verso nuovi e migliori orizzonti? Non sono forse rimasto negli ultimi mesi in una casa di provincia, chino su ristampe di libri e commenti ristampati di libri ristampati quando nel quartiere San Lorenzo a Roma si occupava il cinema Palazzo? Non ero forse preso dalla nostalgia del lirismo quando di fronte a Wall Street gli "Indignados" di tutto il mondo (slogan identitario giusto in questo doppio senso, a mio avviso: indignati dalla finanza ma anche, intuitivamente, non-degni di partecipare alla ricchezza) reclamavano di non essere dei sognatori, perché coloro che sognano sono proprio quelli che credono che il mondo non cambierà? Peggio: non sono forse rimasto steso ad asciugar la pelle al sole dopo un bagno rinfrescante, in certi giorni o ore di riposo, mentre il mio Paese si trovava sull'orla del deficit? Non ho anch'io provato, per quanto di rado, il sentimento di meritarmi il benessere dopo, in fondo, rispetto al mio lavoro, non aver fatto altro che scuotere più a fondo il (mio) pensiero verso abissi senza fondo, in cui l'auto-referenzialità è un pericolo evitato però solo all'interno dell'auto-giustificazione senza fondo dello stesso pensiero (il pensiero che va al di là da sé nel pensare se stesso)? Non è, inoltre, proprio nella blogosfera che si costituiscono oggi (come dimostra Jeffrey T. Schnapp di Harvard) comunità di condivisione non solo del pensiero, ma, al limite, del gesto stesso dello scrivere - un'interattività capace di abolire non solo tipograficamente ma anche nel metodo (nel suo farsi) le firme poste come frontespizio della propria procedura creativa (il prodotto creativo come "ferma", garanzia dell'unione dello scritto)?

Sono domande sempre presenti nel mio quotidiano. Potrei anche dire che ho un senso di colpa sospeso sui mio giorni. In un'intervista di qualche anno fa, Jean-Luc Nancy diceva che era ormai stanco di firmare petizioni, e che era giunto il momento in cui aveva bisogno del seguente credo: che se svolgesse il suo proprio lavoro con zelo, convinzione e responsabilità, questo avrebbe diciamo "automaticamente" aiutato gli altri, avrebbe contribuito a rendere il mondo un mondo migliore. In fondo, se non è scrittura né inquietudine quella che guarda il proprio ombelico, non lo è neanche quella che guarda l'ombelico degli altri, e perfino l'ombelico del mondo.

In questi anni ho sempre spiegato il mio mancato attivismo citando questa risposta di Nancy. D'altro canto, conformemente al mio solo principio direttore, non so se faccio bene. Difendo lealmente le mie ragioni nelle conversazione con le persone che mi sono attorno, ma cerco soprattutto di ascoltare. Non appartengo a nessuna ideologia, rigetto ogni tipo di "-ismo" e tendo all'indipendenza nei giudizi.
Osservando i comizi sorrido ai politici che lasciano il tempo agli applausi e che fomentano le folle. Tutto questo non mi appartiene, forse non sarei capace di entrare in un sistema di discorso basato sul consenso e sull'applauso, ma Robespierre è stato il primo personaggio storico a toccarmi, già durante la quinta elementare. Forse il problema della valutazione del presente come azione oppure no, mi interessa di più rispetto a ciò che sta già accadendo... ma appunto, se avviene.
Ecceduto dalle e nelle analisi, vivo nel passato guardando al dipanarsi del futuro, aspettando una carrozza che punti a raggiunger l'iperspazio; oppure siamo io e i miei simili a creare, in un sottosuolo invisibile alla moltitudine, l'ansia dell'evento che cambi il corso della storia, la premessa della sua riconoscibilità - e questo perché esso non avverrà che superando il fatto, superando il fatto del presente stesso ?

I miei anni prima della Rivoluzione sono gli anni d'un eroico sproposito.

(Il titolo è una frase del Talleyrand, e già affissa nella locandina di Prima della rivoluzione di Bertolucci).

Monday, February 20, 2012

Mente e corpo nella pratica del Breve-Intenso-Infrequente-Organizzato

Appartengo ad una generazione e ad un ceto sociale che ha avuto l'opportunità di vivere agiatamente gli anni di formazione. Questo significa che ha potuto godere di un'infanzia relativamente tranquilla, e che ha potuto coltivare diverse passioni a fianco del percorso scolastico, senza ricchezza ma senza privazioni.

Una di quella che non mi ha mai abbandonato è stata la pratica sportiva. Non mi è mai appartenuto, in fondo, l'industria del divertimento e neanche gli stati di alterazione mentale. Pur non essendo affatto dotato - anzi riuscendo male in tutti gli sport - continuo a sforzare il mio corpo nel diletto dell'esaurimento muscolare.

Perse le velleità agonistiche abbastanza precocemente, col tempo, infatti, mi sono sentito in un certo modo sempre più preso nell'attività fisica, vero pendant di quel percorso di formazione culturale. Ma la cura del corpo ha seguito una direzione meno lineare, incredibilmente più lunga e più tortuosa (sebbene ormai strutturalmente più conciliante e "definitiva", impossibile nell'evoluzione infinita e continuamente ripresa cultura), di cui vorrei evocare, più che i fatti, il pensiero stesso.

Difatti, per chi svolge un "lavoro" essenzialmente di rimozione delle proprie nevrosi nella parola scritta (nel sentimento della propria incapacità e del debito verso la società), l'unico rimedio è spesso l'uscita serale, notturna, con tutto ciò che vi è connesso. Io non credo di essere fatto per questo. La mia è la vita dello sportivo di alto livello senza esserlo.

E tuttavia, nei momenti di maggiore angoscia, quando lo studio mi trascinava nel bisogno di trovarmi indietro, lo sport ha assunto le funzioni del capriccio irresponsabile, d'una dipendenza positiva e maniacale. Lo sport era insomma la valvola di sfogo regolata di una sregolatezza dello spirito.

Fin quando, deluso dai risultati nell'estetica e nelle prestazioni, iniziai a chiedermi perché, proprio nei momenti in cui facevo più sport per evitare il confronto con me stesso, nei momenti in cui esso prendeva per di più i miei pensieri, il mio corpo regrediva, sembrava somatizzare le mie paure.

Fu la scienza dello sport a insegnarmi, e nella particolare forma dei BII e in particolare del BIIO, a come uscirne. Capii che la forma dell'allenamento doveva essere molto breve, intensissima e organizzata: che l'equilibrio di testosterone e cortisolo è più importante della vascolarizzazione; che il corpo cresce quando è a riposo. La presa di coscienza del mio ectomorfismo estremo fu un vantaggio nell'applicazione indomita e senza sbavature di tale metodo, che, nel momento in cui mi liberava dall'ossessione più o meno patente dell'estetica (l'impossibilità di allenarsi diversamente corrispondeva quindi alla serena accettazione del mio fisico nella propensione a piccoli ma continui miglioramenti), mi gettava ancor più nell'estremo rigore e nella conoscenza della correttezza di esecuzione e nei fondamentali. Non ho più preteso altro da me che la progressione lenta e continua, e una vita più diversa, e più serena, liberandomi dall'assuefazione delle endorfine naturali dello sport a capofitto.

Esso mi fece anche uscire dalla dipendenza dello sport stesso. Mike Mentzer mi ha insegnato, nonostante evidenti limiti nella sua concezione "filosofica" (il suo oggettivismo, mutuato da Ayn Rand, sarebbe in realtà errato se non inutile a spiegare i rapporti del proprio corpo con i propri meccanismi fisiologici, essendo collegato strettamente alla mente), che l'intensità è tutto, e che la razionalizzazione dello sforzo permette di sentire l'intensità stessa perché applicata in pochi secondi e quando il sistema neuro-muscolare è sufficientemente ricettivo a sentire l'ultima ripetizione, l'unica per cui allenarsi. I BII sono ciò che distingue una cultura della palestra dal culto del palestrato. Non mi ha fatto abbandonare il rigore nei pasti; ma l'atipicità e anche la poca flessibilità sono sfumate, perché ora ho più tempo per pensare e per vedere gente a cui tengo: ed è anzi proprio in questi momenti che i muscoli si strutturano, recuperano attivamente: nei momenti in cui approfitto d'una ritrovata socialità il mio corpo sta rispondendo esattamente allo stimolo che ho effettuato quando ero solo con dei pezzi di ferro; nei momenti in cui sfoglio le pesanti carte il mio corpo si assesta per rendere il peso sollevato il giorno precedente.


Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006