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Rosie Hardy's "Outcasted" |
Posso dire di aver partecipato al mio tempo? Di aver vissuto il mio presente ubicato in un oggi speranzoso d'un avvenire migliore per me e per altrui, d'aver contribuito alla mia Storia secondo i miei ideali creati in un dialettico divenire-sociale?
Questo blog non compone, infatti, proprio un ritratto contrario, ovvero quello di una scrittura accovacciata, recroquevillée su se stessa, un autodafé della propria incapacità di comunicare direttamente agli altri e per gli altri, un perpetuo e voluttuoso irriconoscibile spiegarsi con se stesso al fine di perseverare il proprio io nel penoso sussiego di occasioni ispiratrice della scrittura? Non rappresenta proprio una sorta di scrittura a-sociale, o meglio anomica, una ripetizione scritta dell'esperienza di un suicidio che la società stessa mi ha imposto, limitandomi ad un lavoro teoretico e solitario e in fondo a questo blog?
Cosa ho fatto, insomma, in questi anni, per accompagnare il mio tempo verso nuovi e migliori orizzonti? Non sono forse rimasto negli ultimi mesi in una casa di provincia, chino su ristampe di libri e commenti ristampati di libri ristampati quando nel quartiere San Lorenzo a Roma si occupava il cinema Palazzo? Non ero forse preso dalla nostalgia del lirismo quando di fronte a Wall Street gli "Indignados" di tutto il mondo (slogan identitario giusto in questo doppio senso, a mio avviso: indignati dalla finanza ma anche, intuitivamente, non-degni di partecipare alla ricchezza) reclamavano di non essere dei sognatori, perché coloro che sognano sono proprio quelli che credono che il mondo non cambierà? Peggio: non sono forse rimasto steso ad asciugar la pelle al sole dopo un bagno rinfrescante, in certi giorni o ore di riposo, mentre il mio Paese si trovava sull'orla del deficit? Non ho anch'io provato, per quanto di rado, il sentimento di meritarmi il benessere dopo, in fondo, rispetto al mio lavoro, non aver fatto altro che scuotere più a fondo il (mio) pensiero verso abissi senza fondo, in cui l'auto-referenzialità è un pericolo evitato però solo all'interno dell'auto-giustificazione senza fondo dello stesso pensiero (il pensiero che va al di là da sé nel pensare se stesso)? Non è, inoltre, proprio nella blogosfera che si costituiscono oggi (come dimostra Jeffrey T. Schnapp di Harvard) comunità di condivisione non solo del pensiero, ma, al limite, del gesto stesso dello scrivere - un'interattività capace di abolire non solo tipograficamente ma anche nel metodo (nel suo farsi) le firme poste come frontespizio della propria procedura creativa (il prodotto creativo come "ferma", garanzia dell'unione dello scritto)?
Sono domande sempre presenti nel mio quotidiano. Potrei anche dire che ho un senso di colpa sospeso sui mio giorni. In un'intervista di qualche anno fa, Jean-Luc Nancy diceva che era ormai stanco di firmare petizioni, e che era giunto il momento in cui aveva bisogno del seguente credo: che se svolgesse il suo proprio lavoro con zelo, convinzione e responsabilità, questo avrebbe diciamo "automaticamente" aiutato gli altri, avrebbe contribuito a rendere il mondo un mondo migliore. In fondo, se non è scrittura né inquietudine quella che guarda il proprio ombelico, non lo è neanche quella che guarda l'ombelico degli altri, e perfino l'ombelico del mondo.
In questi anni ho sempre spiegato il mio mancato attivismo citando questa risposta di Nancy. D'altro canto, conformemente al mio solo principio direttore, non so se faccio bene. Difendo lealmente le mie ragioni nelle conversazione con le persone che mi sono attorno, ma cerco soprattutto di ascoltare. Non appartengo a nessuna ideologia, rigetto ogni tipo di "-ismo" e tendo all'indipendenza nei giudizi.
Osservando i comizi sorrido ai politici che lasciano il tempo agli applausi e che fomentano le folle. Tutto questo non mi appartiene, forse non sarei capace di entrare in un sistema di discorso basato sul consenso e sull'applauso, ma Robespierre è stato il primo personaggio storico a toccarmi, già durante la quinta elementare. Forse il problema della valutazione del presente come azione oppure no, mi interessa di più rispetto a ciò che sta già accadendo... ma appunto, se avviene.
Ecceduto dalle e nelle analisi, vivo nel passato guardando al dipanarsi del futuro, aspettando una carrozza che punti a raggiunger l'iperspazio; oppure siamo io e i miei simili a creare, in un sottosuolo invisibile alla moltitudine, l'ansia dell'evento che cambi il corso della storia, la premessa della sua riconoscibilità - e questo perché esso non avverrà che superando il fatto, superando il fatto del presente stesso ?
I miei anni prima della Rivoluzione sono gli anni d'un eroico sproposito.
(Il titolo è una frase del Talleyrand, e già affissa nella locandina di Prima della rivoluzione di Bertolucci).