Sunday, February 13, 2011

Le dominizioni del fallo apotropaico.


Nel documentario per il cinema La domination masculine (di Patric Jean), dedicato al rapporto tra i sessi e sostenuto dalla tesi, di stampo neo-femminista, che la donna partirebbe ancora oggigiorno nei pregiudizi morali e sociali, il regista, stando attento a mai non mostrare mai il suo volto, riprende se stesso (in spezzoni raccordando le diverse parti del film) appendere ad uno scorcio di muro delle immagini provenienti da giornali, simboli, fotografie, persino monumenti, della dominazione suddetta.
L'emblema del fallo pare inizialmente servire a dimostrare il carattere proprio al dominante, oltre una minacciosa monumentalità propria alla sua stessa fisionomia. Così, l'Empire State Building, incisioni giapponesi in cui il pene è raffigurato enorme e fa prostrare una donna sotto la propria ombra, finanche i piloni (come quelli reggenti le catene che circoscrivono l'area pedonale), rinviano a costruzioni maschili create ad arte per ricordare i privilegi del sesso forte. Le sculture si ergono o erigono verso il cielo come obelischi da cui si perpetua inconsciamente il culto di un sé già dominante, se non già quello di una civiltà smarrita.

Il fallo, feticcio, kitsch, pornografante, è visibilmente (anche a ragione della figurazione spesso esagerata delle sue dimensioni) un prodotto apotropaico: fecondità, prosperità, saluta, forza – dominazione embrionale perché settaria, a differenza di altri oggetti scaramantici o della musica o di altri riti, ma certo nella sua primitività, ancora rivestito di poteri .
Andando al di là della giusta denuncia, quello che il film sembra dirci (o che pare degno di nota, quasi a sintetizzarlo), in questo passaggio estetico dal fallo alla rappresentazione della donna sottomessa, è che sono una l'evoluzione dell'altro; sono lo stesso in fondo. Allora, se anche questo è ciò che il collage può rappresentare, il simbolo si perde verso la venerazione del suo opposto. Il fallo si trasfigura nelle forme femminili secondarie. La trasposizione non è però totale, in quanto la struttura potrebbe mantenere in vita lo stesso messaggio. l'uomo, dipingendo una donna bella, stereotipata, da apprezzare, non solo la risucchia ai suoi fini (ché sarebbe mero utilitarismo, ottenimento del desueto tema della donna-oggetto), ma la rilega ad una fallocrazia, proprio nel momento in cui ella pare esprimere la sua pienezza, la sua bellezza, la sua singolarità col suo corpo (anche se questa singolarità si perde nell'era del Photoshop). L'apotropaico, in questo senso, è però ancora presente? Il maleficio sarebbe allora una donna diversa da quella che è rappresentata, arrivando ad esprimere ancora il proprio maschilismo: in fondo, in una mera raffigurazione del pene, la donna si trova certo a rimirarlo, ma in un libero status: la donna sarebbe in generale l'adepta del pene, ma è per lo meno "libera" di scegliere la propria fantasia.
Si arriva così al paradosso che guardare una donna stereotipata nelle immagini d'oggi (anche coniugata agli stili delle diverse perversioni), lasciarla al suo "lasciarsi-guardare", significa guardare il proprio pene per quanto il proprio pene esprimi ancestralmente il rapporto di subordinazione della donna, che ora è in effetti “pene” in quanto simbolo della raggiunta fallocrazia che si estende a dominare anche la loro psiche nel porsi verso gli uomini (i canoni estetici). Più una donna è desiderabile (e lo sarebbe solo quando ricondotta ad un meccanismo di piacere dell'uomo che esprime anche un'ideologia di sottomissione al ruolo che l'uomo le dà), più ella o “essa” si avvicina ad essere mero fallo – più tuttavia, in questa trasformazione iconica, la donna (crediamo) potrebbe, conoscendone i meccanismi, farsi carico di un cambiamento di sé fino a una propria liberazione. Nella società fallocrate, ciò non potrebbe non passare, ahimè, che dall'immagine che l'uomo se ne fa. La presa del potere la si farà all'interno del potere stesso e come un iniziale gioco.

Il messaggio è il mezzo


Qualcuno ha mai visto una pubblicità pessimista? Tutti i prodotti ci renderanno la vita migliore, qualunque cosa ciò voglia significare. Forse l’anima del commercio stesso è creare nell’acquirente un desiderio di miglioria, e la pubblicità è il movimento di finzione, ovvero falsità in immagine, immaginazione, fantasia, piacevole per un soggetto che sogna – in fondo la finzione pubblicitaria, diversamente da quella cinematografica, deve necessariamente creare curiosità immediata e pro-tendere il fruitore verso di essa. A queste premesse l’ultima pubblicità di Spike Lee è perfettamente pertinente, anzi ideale. L’utilizzo utopistico e (quasi) mai realizzato della tecnologia, come strumento e non come fine, è alla base dell’immagine presa in considerazione. Il vuoto che lascia la tecnica è riempito da un lato dal pubblico di una piovosa città dell’Occidente, dall’altro dalla proiezione non della finale sportiva di turno, ma di (presumibilmente un messaggio di) Gandhi. Dunque i nuovi mezzi di comunicazione migliorano la nostra vita, perché assolvono con perfezione il compito che spettava loro dall’inizio. E con l’era dell’immagine, non si potrà che incrementare tale stato di cose, poiché tutta la nostra buona umanità sarà perfettamente trasparente a sé nella comunicazione.
Non credo nella cattiveria dell’autore, ma la sua grossolanità di fondo sfocia nella villania. Non è necessario avere conoscenze semiotiche per capire che qui si sta escludendo semplicemente tutto. È certo importante elucubrare sulla natura del segno sempre particolare e equivoco dal contesto di partenza al mezzo di comunicazione fino al pubblico, e le mie riserve sono sul fatto che probabilmente nessuno avrebbe ascoltato Gandhi in questo modo, né che lui pretendesse mai di comunicare come un qualsiasi politico in televisione, ma perché credere che un tale messaggio DEBBA essere ad uso e consumo di tutti, come un evento sportivo o un concerto?

Di fronte alla folla il Mohatma, se ne sta lì, comicamente, appollaiato nel suo maxi-schermo. E per noi anche così continua a rappresentare la sua calma forza che tutto sovverte.

[recensione allo spot Tim di Gandhi, scritta nel 2005 per la partecipazione ad un seminario di critica cinematografica]

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006