
Nel documentario per il cinema La domination masculine (di Patric Jean), dedicato al rapporto tra i sessi e sostenuto dalla tesi, di stampo neo-femminista, che la donna partirebbe ancora oggigiorno nei pregiudizi morali e sociali, il regista, stando attento a mai non mostrare mai il suo volto, riprende se stesso (in spezzoni raccordando le diverse parti del film) appendere ad uno scorcio di muro delle immagini provenienti da giornali, simboli, fotografie, persino monumenti, della dominazione suddetta.
L'emblema del fallo pare inizialmente servire a dimostrare il carattere proprio al dominante, oltre una minacciosa monumentalità propria alla sua stessa fisionomia. Così, l'Empire State Building, incisioni giapponesi in cui il pene è raffigurato enorme e fa prostrare una donna sotto la propria ombra, finanche i piloni (come quelli reggenti le catene che circoscrivono l'area pedonale), rinviano a costruzioni maschili create ad arte per ricordare i privilegi del sesso forte. Le sculture si ergono o erigono verso il cielo come obelischi da cui si perpetua inconsciamente il culto di un sé già dominante, se non già quello di una civiltà smarrita.
Il fallo, feticcio, kitsch, pornografante, è visibilmente (anche a ragione della figurazione spesso esagerata delle sue dimensioni) un prodotto apotropaico: fecondità, prosperità, saluta, forza – dominazione embrionale perché settaria, a differenza di altri oggetti scaramantici o della musica o di altri riti, ma certo nella sua primitività, ancora rivestito di poteri .
Andando al di là della giusta denuncia, quello che il film sembra dirci (o che pare degno di nota, quasi a sintetizzarlo), in questo passaggio estetico dal fallo alla rappresentazione della donna sottomessa, è che sono una l'evoluzione dell'altro; sono lo stesso in fondo. Allora, se anche questo è ciò che il collage può rappresentare, il simbolo si perde verso la venerazione del suo opposto. Il fallo si trasfigura nelle forme femminili secondarie. La trasposizione non è però totale, in quanto la struttura potrebbe mantenere in vita lo stesso messaggio. l'uomo, dipingendo una donna bella, stereotipata, da apprezzare, non solo la risucchia ai suoi fini (ché sarebbe mero utilitarismo, ottenimento del desueto tema della donna-oggetto), ma la rilega ad una fallocrazia, proprio nel momento in cui ella pare esprimere la sua pienezza, la sua bellezza, la sua singolarità col suo corpo (anche se questa singolarità si perde nell'era del Photoshop). L'apotropaico, in questo senso, è però ancora presente? Il maleficio sarebbe allora una donna diversa da quella che è rappresentata, arrivando ad esprimere ancora il proprio maschilismo: in fondo, in una mera raffigurazione del pene, la donna si trova certo a rimirarlo, ma in un libero status: la donna sarebbe in generale l'adepta del pene, ma è per lo meno "libera" di scegliere la propria fantasia.
Si arriva così al paradosso che guardare una donna stereotipata nelle immagini d'oggi (anche coniugata agli stili delle diverse perversioni), lasciarla al suo "lasciarsi-guardare", significa guardare il proprio pene per quanto il proprio pene esprimi ancestralmente il rapporto di subordinazione della donna, che ora è in effetti “pene” in quanto simbolo della raggiunta fallocrazia che si estende a dominare anche la loro psiche nel porsi verso gli uomini (i canoni estetici). Più una donna è desiderabile (e lo sarebbe solo quando ricondotta ad un meccanismo di piacere dell'uomo che esprime anche un'ideologia di sottomissione al ruolo che l'uomo le dà), più ella o “essa” si avvicina ad essere mero fallo – più tuttavia, in questa trasformazione iconica, la donna (crediamo) potrebbe, conoscendone i meccanismi, farsi carico di un cambiamento di sé fino a una propria liberazione. Nella società fallocrate, ciò non potrebbe non passare, ahimè, che dall'immagine che l'uomo se ne fa. La presa del potere la si farà all'interno del potere stesso e come un iniziale gioco.
L'emblema del fallo pare inizialmente servire a dimostrare il carattere proprio al dominante, oltre una minacciosa monumentalità propria alla sua stessa fisionomia. Così, l'Empire State Building, incisioni giapponesi in cui il pene è raffigurato enorme e fa prostrare una donna sotto la propria ombra, finanche i piloni (come quelli reggenti le catene che circoscrivono l'area pedonale), rinviano a costruzioni maschili create ad arte per ricordare i privilegi del sesso forte. Le sculture si ergono o erigono verso il cielo come obelischi da cui si perpetua inconsciamente il culto di un sé già dominante, se non già quello di una civiltà smarrita.
Il fallo, feticcio, kitsch, pornografante, è visibilmente (anche a ragione della figurazione spesso esagerata delle sue dimensioni) un prodotto apotropaico: fecondità, prosperità, saluta, forza – dominazione embrionale perché settaria, a differenza di altri oggetti scaramantici o della musica o di altri riti, ma certo nella sua primitività, ancora rivestito di poteri .
Andando al di là della giusta denuncia, quello che il film sembra dirci (o che pare degno di nota, quasi a sintetizzarlo), in questo passaggio estetico dal fallo alla rappresentazione della donna sottomessa, è che sono una l'evoluzione dell'altro; sono lo stesso in fondo. Allora, se anche questo è ciò che il collage può rappresentare, il simbolo si perde verso la venerazione del suo opposto. Il fallo si trasfigura nelle forme femminili secondarie. La trasposizione non è però totale, in quanto la struttura potrebbe mantenere in vita lo stesso messaggio. l'uomo, dipingendo una donna bella, stereotipata, da apprezzare, non solo la risucchia ai suoi fini (ché sarebbe mero utilitarismo, ottenimento del desueto tema della donna-oggetto), ma la rilega ad una fallocrazia, proprio nel momento in cui ella pare esprimere la sua pienezza, la sua bellezza, la sua singolarità col suo corpo (anche se questa singolarità si perde nell'era del Photoshop). L'apotropaico, in questo senso, è però ancora presente? Il maleficio sarebbe allora una donna diversa da quella che è rappresentata, arrivando ad esprimere ancora il proprio maschilismo: in fondo, in una mera raffigurazione del pene, la donna si trova certo a rimirarlo, ma in un libero status: la donna sarebbe in generale l'adepta del pene, ma è per lo meno "libera" di scegliere la propria fantasia.
Si arriva così al paradosso che guardare una donna stereotipata nelle immagini d'oggi (anche coniugata agli stili delle diverse perversioni), lasciarla al suo "lasciarsi-guardare", significa guardare il proprio pene per quanto il proprio pene esprimi ancestralmente il rapporto di subordinazione della donna, che ora è in effetti “pene” in quanto simbolo della raggiunta fallocrazia che si estende a dominare anche la loro psiche nel porsi verso gli uomini (i canoni estetici). Più una donna è desiderabile (e lo sarebbe solo quando ricondotta ad un meccanismo di piacere dell'uomo che esprime anche un'ideologia di sottomissione al ruolo che l'uomo le dà), più ella o “essa” si avvicina ad essere mero fallo – più tuttavia, in questa trasformazione iconica, la donna (crediamo) potrebbe, conoscendone i meccanismi, farsi carico di un cambiamento di sé fino a una propria liberazione. Nella società fallocrate, ciò non potrebbe non passare, ahimè, che dall'immagine che l'uomo se ne fa. La presa del potere la si farà all'interno del potere stesso e come un iniziale gioco.