Sunday, June 29, 2014

Di fronte alla tomba di Rilke.



(A volte lo spirito ha bisogno, riposandosi, di ricaricarsi –  i viaggi agognati, le villeggiature da tempo prenotate, ovunque e in tutto tra essi simili, egualmente funzionali alla lieve grazie che propizia la strada del ritorno. 
Esiste – è esistito – un luogo in cui sono rimasto sospeso un fine settimana appena, e nella sua calma, mi sono ridestato. Una continuità paradossale, spalancata da una turbata commozione). 

Con in zaino le Opere complete di Rilke, giungo, nel solstizio d’estate, dal castello di Muzot, su un’altura presso Sierre, quella che, per il paesaggio e il clima, il poeta aveva definito una “via di mezzo tra la Provenza e la Spagna”.
Il "castello" di Muzot, Sierre

 
La vallata di Raron è la piega per la quale quasi sembra si chiuderanno lentamente, alla fine dei tempi, le montagne del Vallese. 

 
La vallata di Raron
Due colline in tutto simili si stagliano sopra il margine est della cittadina semideserta, con il suo Comune, i suoi centri sportivi e una sua vasta rimessa di veicoli edili e commerciali, appena dietro la stazione ferroviaria.
Una di esse è spoglia e irregolare; un’altra, quella più prossima appare al suo fianco, sormontata da una chiesa compatta, che, appena si giunge in basso, sembra perdere la croce, apposta sulla sommità del suo campanile, più in alto delle cime più alte. 

 
Burgerkirche, Raron

Seguo la strada che monta verso il punto più alto del mio cielo; è costeggiata da case di legno scuro, intervallata dai rigagnoli dell’acqua che deborda dagli abbeveratoi. Les Anges, sont-ils devenus discrets ! / Le mien à peine m’interroge », Vergers, 22. 
Strada verso la Burgerkirche, Raron

Degli innaffiatoi automatici vaporizzano pioggia orizzontale da ponente.
Quando si giunge, superato uno spiazzo con un piccolo cimitero di fronte la chiesa, in tutto simile a quelli di paese, con le lapidi di marmo lustrato e un numero di foto a colori sempre più numerose (“C’est qu’il nous faut consentir à toutes les forces extrêmes”, Vergers, 24), è necessario passare per un porticato per accedere alla tomba di Rilke, aggirando due delle quattro pareti dell’antica Burgerkirche, che vi si oppone con forza e potrebbe persino di impedirne o ritardarne subdolamente, sul lato corto, l’accesso, attraverso delle scale e un portone conducenti alla navata centrale, dominata da un affresco moderno e grottesco del Giorno del Giudizio.
È un mezzogiorno in cui dense nubi frammentano una luce intensa; il vento che soffia sulla vallata s’infrange sulla parete della chiesa, su cui si leggono i segni del suo lungo passaggio, come esso mostrasse una forma moderna di intelligenza primitiva: un largo astrattismo rupestre. 

Facciata nord della Burgerkirche


La lapide di Rilke è apposta sul muro della chiesa che si affaccia sulla vallata, abbracciata dall’alloro. La terra che ricopre la sua salma dà fioritura a primule e viole.  

La tomba di Rilke, Raron


“Rose, oh reiner Widerspruch, Lust,
Niemandes Schlaf zu sein unter soviel
Lidern."

“Rose, oh reiner”; “Rose, oh Rainer” (omofonia); Rainer, oh rosa, dal desiderio insostenibile, ma che in questa contraddizione ti trasfiguri da uomo a rosa e inversamente, e da nome ad aggettivo, conservando invariata la tua purezza.

Realizzo di essere in uno dei luoghi in cui più avrei voluto essere al mondo. Cerco un appoggio sulla balaustra di pietre grezze intervallate con legni nelle parti vuote, che, salvando il pellegrino dalle tentazioni dell’estasi, staglia il gradone della collina della Burgerkirche. Faccio come per riprendermi da un disequilibrio, come fossi divenuto più ripido dei pendii che siedono tutt’attorno. Con la tomba di fronte ai miei occhi, chiedendomi il perché di un simile intensificazione d’energia, volto lo sguardo verso la sinistra. Raron è assopita dalle nubi e stordita dal sole (vi sono persino, in uno spiazzo che ha l’aria d’un bar, degli ombrelloni multicolori posti alla rinfusa e spopolati; scavi minerari poco lontani, sono fermi, le gru e ruspe immobili, come fossero delicati con la sacralità del mio momento. Volto lo sguardo verso la mia destra (ed a quest’istante il vento che mi scompone e riordina i capelli, e il ronzio ciclico degli innaffiatoi sul pendio mi richiamano al tempo), e noto, a qualche decina di metri, la collina gemella di quella ove qualcosa di Rilke ed io siamo uniti. Una collina brulla, non spianata, completamente disadorna, dove steli di erba lunga provano a ricoprire rocce irregolari.
Scorcio di Raron dallo spiazzo di fronte la tomba di Rilke

Mi rifocalizzo sulle iniziali della croce – sigla e ritornello, RMR – e in questa melodia breve spezzata cedo alla tentazione di lasciarmi lentamente trasportare nell’esecuzione di un misterioso compito di ricongiungimento spirituale dettatomi anni fa e da anni presente in me (“Aber Lebendige machen / alle den Fehler, dass sie zu stark unterscheiden”, Erste Elegie).
Dietro e fuori dal recinto e dal terrazzamento, su un altro livello, come sorgesse da un cunicolo proveniente dritto dritto dalla fossa ("Wolle die Wandlung", Sonnette an Orpheus, II, XII), un sussulto vitale ed effimero, scomposto di primo acchito – un angelo dalle grandi ali levate ed ancorato al suolo con la forma, “terribile”, di una lunga erba selvatica irraggiungibile e da contemplare, “denn die Schöne ist nichts / als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen” (Die Erste Elegie). 

L'angelo di quel giorno a Raron


Mi sono infine seduto e ho cominciato a leggere dei passi dell'opera completata, seguendo quell'ispirazione cosi' tipica dei testi poetici di cui ci si è appropriati - quella voglia di saltare da una lirica ad un'altra. E in questi vuoti del girare pagine e ricercare quello che si è già tante volte trovato, ho capito che quello che era appena accaduto era una scossa di riassestamento nella mia vita, la copertura, in un attimo di immobilità, del ritardo perenne che rincorrevo: almeno per un attimo, mi sono sentito "contemporaneo di me stesso" (lettera di Rilke da Sierre del 1911).


"Vergers", OEuvres poétiques et théâtrales.

Monday, November 11, 2013

L'utilizzo dell'opposizione "teorico / pratico" come ideologia di potere


Köln, 1945




  • Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. (J. M. Keynes)


  • Il teorico non è (il) pratico.
    Con questa evidenza, si vuol suggerire l'opposizione che, stringendosi progressivamente, diramerà il percorso delle righe seguenti.
    L'origine aneddotica di questo testo è stata una riunione con taluni imprenditori, seduti a discorrere dietro lo stesso tavolo dietro cui vi era anche la mia sedia, su cui ero ovviamente poggiato anch'io. Più di uno di loro, per una sorta di istinto sincronizzatore, ha parlato di "vera vita", riguardante la realizzazione di una determinata attività. La nozione di "vera vita" mi ha illuminato. Non solo perché, naturalmente, nella sua falsa semplicità, non ha senso (ed io, per natura, mi interesserei immediatamente al senso sprigionato dai suoi opposti di "falsa vita", oppure, meglio, una "vera morte"); ma perché mi è parso che in tale crogiolo si annidino delle ideologie di svalutazione di ciò che "non è vero", "non vive". In fondo, al suo livello elementare, si voleva dire (per salvare "la vera vita" dal suo ridicolo, e reintrodurla in un contesto), che siamo in un quadro reale, operativo, "pratico" in fondo, per utilizzare un termine semplice. A ciò dunque, per render credibile ciò che potrebbe sembrare del senso comune, si può opporre il contrario naturale, il teorico.
    Ma il senso comune non è, si spera e si teme al contempo, se con esso si intende una razionalità istintiva dell'uomo.
    Il teorico non è il pratico dunque, e questa è un'ideologia di cui non è facile tracciare la genealogia, e che nondimeno pervade i discorsi ed è foriero di una certa retorica, essa stessa diversamente pratica.
    Si potrebbe pensare che essa provenga da una logica capitalistica, o meglio, dato il fattore di preminenza al pratico, mercantilistica. Il pratico osserva un attaccamento al risultato immediato, che permette a coloro che ne propugnano a tratti la sua priorità, l'idea che essi siano i portatori della storia materiale. Il "nuovo spirito del capitalismo" si è, a certi livelli, alzato invece a talune nozioni teoriche ("progetto" per esempio), oltre alle complesse formalizzazioni degli arnesi di analisi e di performance economiche.
    Una tale lettura dicotomica si trova, oltre alle derive mercantilistiche del capitalismo, similmente anche nel marxismo ortodosso. La tendenza è quella di mettere in risalto il reale, la dialettica materiale della storia, contro l'apparato teorico del capitalismo, fondate sulla riduzione del valore d'uso al valore di scambio, del lavoro vivo al lavoro salariato. Nel marxismo classico, il socialismo diventerà realtà perché emerge da una dialettica già instaurata nella storia. Il teorico è in questo caso l'astrazione dell'economia capitalistica come dell'hegeliansimo, allorché nel mercantilismo, il teorico è l'astrazione intellettuale (una chiara ridondanza), il ritiro dalla dialettica della storia, su cui aver la parvenza di interagire tramite concetti, formule, nozioni, che tendono a non produrre scambi materiali.
    In ambedue i casi, con profondità speculative diverse e con ambizioni diverse, vi è un medesimo disprezzo per l'altro da ciò che pare reale, una simile pretesa a ridurre il teorico all'astrazione, un sottile analogo postulato riguardante la povera fine che toccherà all'apprensione...
    Interessa ora mettere in risalto il valore della vittoria del pratico (reale), nei giudizi dell'ideologia attuale, che potremmo definire molto sommariamente post-capitalistica, identificando con essa una cronologia nuova al capitalismo.
    Ci può essere anzitutto una forma di rivalsa populistica verso coloro che manipolino i concetti, le nozioni, le parole in fondo poco comprensibili. Poiché spesso tali persone non facciano alcunché di pratico, i pratici, i reali, si sentono in grado di contestare questo "sollevamento" da compiti operazionali. E spesso tali compiti essendo ingrati, o per lo meno percepiti in qualche modo come tali, ma pur tuttavia anche capaci di far sentire coloro che li effettuano soddisfatti, dando risultati tangibili, quantificabili e dunque migliorabili, si ha tendenza a calcare il pratico come in effetti ciò che trascina il mondo, ciò che ne detta le condizioni materiali - e infine, poiché senza la materia non vi è consumo di beni (derrate alimentari in primis), e quindi nessuna perseveranza delle condizione di sostentamento durevole per l'umanità, ai ritmi odierni e non solo.
    Ma appunto, cos'è allora il pratico, a cui dobbiamo l'esistenza stessa delle condizioni di una buona teoria, e soprattutto a cui ogni teorico dovrebbe gratitudine e riconoscenza più che agli stessi padri spirituali?
    Si potrebbe allora mettere in discussione l'appartenenza dei due termini ad uno stesso rango - e tuttavia, il pratico e il teorico utilizzato dall'ideologia dominante hanno una caratteristica simile: "non hanno fine", e cioè la loro definizione non trova riposo in elementi, in contesti, in riferimenti, neppure in un'azione (πρᾶγμα), ma si nutre dell'opposizione dell'altro; inoltre, la loro definizione emerge esclusivamente da coloro che si rivendicano esclusivamente pratici, e che spesso tendono a non addomesticarsi a teorie. I teorici sono spesso ben disposti a concedere per lo meno dei coefficienti di praticità delle loro teorie, quand'anche non lo rivendicano in totalità intenzionalmente; l'inverso non è vero.
    La relazione teorico-pratico siffatta è dunque una nozione dettata dal potere, in cui mal si cela una rivalsa secolare, per non dire una rivincita di condizione sociale.
    Ed è questo il problema che affligge il pratico spezzato dal teorico - la mancanza di auto-riflessione: nel pratico "c'è sempre un più pratico", nella tavola attorno a cui era seduto, si poteva sempre rimproverare a coloro che parlavano di "vera vita" di star solo inneggiando alla "vera vita"; e cosi', coloro che coltivano bietole potrebbero ritrovarsi, loro persino e proprio nel momento in cui agiscono, ad essere tacciati di poco pratici qualora non stiano proprio in quel momento ammassando i loro frutti, o seminando. Il momento del pratico ha per eccellenza un ruolo egemonico nella dittatura dell'ideologia sul teorico, e cambia in funzione dell'ultimo "deliverable" considerato dall'interlocutore: questo è il paradosso del pratico, quello di una rivendicazione al gesto muto, a cui ovviamente non c'è parola o indicizzazione per porre fine, non c'è una teoria che sia capace di demarcare il pratico dalla sua infinità di praticità.
    (Si potrebbe generalmente opporre ad un teorico "teorico" la paralisi all'azione, sotto la forma del disprezzo)
    Nel paradosso emerge l'unico grado di verità che emerge dall'utilizzo dell'opposizione: il pratico è esso stesso un concetto teorico; ma il concetto teorico del pratico, osservato dall'ambito pratico (già dunque teorizzato), assegna la vittoria della dicotomia al pratico, il quale vincerà sempre, perché il pratico vede teoricamente il teorico come lontano dal pratico.
    Il pratico della vaga ideologia post-capitalistica si definisce come segue: è tutto quel che non trova fine, dal punto di vista del tangibile cristallizzato materialmente, meglio se all'interno di un meccanismo quantificabile e persino con una buona base di risvolti sociali consolidati e tramandati.
    Il teorico della vaga ideologia post-capitalistica, che propugna per il pratico, è invece tutto quel che si situa al di fuori del focus pratico dell'interlocutore, e che può facilmente essere isolato ed irriso, perché privo di potere.
    La vera vita è sempre altrove.



    Saturday, September 14, 2013

    La dialettica tra i generi all'interno del medesimo dress code e la dominazione maschile

    René Magritte, La Géante.
    La tesi che qui si sosterrà tende a mostrare una dialettica del potere. Tale dialettica è derivata e allo stesso tempo occultata dai "costumi" in senso proprio e figurato. Come "arte del collegare due estremi in relazione" senza pur tuttavia che vi sia un terzo momento conciliante che chiuda trionfalmente, messianicamente ed astrattamente il percorso, essa darà luogo ad un'inversione paradossale dei termini che tuttavia lascerà sbucare un contenuto nuovo del pensiero, possibile (perché non si è ancora sviluppato) e reale (perché esso appare veritiero). E' in tale inversione non contiene il potenziale più fecondo del rapporto dialettico, che è infatti contenuto nell'apertura al senso che l'inversione dialettica impone, e nella seguente necessità di rimettere in gioco il reale stesso attraverso la consapevolezza raggiunta.

    L'espressione anglofona "dress code" indica il codice vestimentario adottato in un dato luogo. Esso appartiene spesso a delle norme non-scritte, et tuttavia in vigore. Nello stesso luogo si tende ad uniformare il dress code per l'uomo e per la donna all'interno del proprio genere. La questione porta appunto sulla differenza dei codici tra i sessi.
    In una banca, l'uomo sarà in giacca e cravatta, la donna in tailleur; in una palestra, l'uomo sarà in pantaloncini e canottiera, la donna sarà ammessa con un pantaloncino magari più corto ed aderente e con un top. Persino tra i creativi la donna può svestirsi di più. A parità di condizioni, alla donna è concessa più nudità che all'uomo. C'è un'unica eccezione, che è estremamente rivelatrice dell'ipocrisia delle convenzioni: il costume da bagno, in cui generalmente la donna copre oltre alla zona genitale anche il seno (se la tendenza è destinata a svanire con il topless pare incerto oggi). In fine, si tende dunque a coprire i segni delle differenze sessuali, come se il petto maschile fosse la condizione normale e il seno femminile un segno della differenza sessuale.
    Nella nozione di dress code risiede il limite di ciò che è considerato "decente", e al contempo il permesso per sdoganare delle differenze di genere. Ma chi stabilisce il dress code, i dress code? L'uomo, la donna, entrambi, il buon senso, i luoghi ? 
    Abbiamo ottime ragioni per pensare che sia l'uomo la tesi dialettica - che sia stato l'uomo, che per l'appunto "ha spogliato" la donna il più possible spingendola a giocare sulle nudità e accentuandone le differenze (come dimostrano le maggiore varietà di differenze vestimentarie), mentre egli tende ad azzerare verso i propri simili il più possibile le differenze e anzi a limare il corpo degli uomini. Più che di omosessualità chiaramente repressa, temiamo si tratti proprio di una ricaduta dialettica (il vuoto dialettico che spinge ad andare oltre il rapporto dei due termini) dello sguardo su di sé attraverso il presunto sguardo delle donne, che allora hanno tendenza a osservare l'uomo non tanto sulla sua pelle visibile, ma sulla superficie uniformata e occultata dagli abiti, com'è il caso del giacca e cravatta. Il "colletto", poi, e la sua necessità (la differenza tra T-shirt e polo, che è ugualmente la differenza di due dress codes diversi). Il fascino che passa dalla copertura dell'abito è dunque necessariamente maschile, allorché alla donna, in virtù dell'esaltazione delle nudità (o del gioco "vedo/non vedo) a parità di dress code, si potrebbe imputare solo la fantasia vestimentaria, che è in effetti maggiore (tailleur, gonne, pantaloni).

    La conclusione che ne traggo è che la dialettica tra uomo e donna rivelata dal dress code comporta una soggezione della donna allo sguardo dell'uomo (tramite la nudità), e allo stesso tempo una purificazione dei tratti somatici del maschio, che, tramite la maggior copertura del corpo, esalta appunto altri caratteri (il volto, lo sguardo, il carisma, e persino il suo abito), che potremmo definire meno fisici e dunque più "morali".

    Eppure un egualitarismo del dress code è assolutamente impossibile a realizzare oggi, pena di essere tacciati di semplice eccentricità oppure addirittura omesessualità (per l'uomo come per la donna).
    La dialettica di genere eleva lo scontro al sistema di appartenenza, apparentemente in equilibrio.
    Oggi pare che solo nell'underground che si possono trovare segni di performazione virtuosa del senso aperto dalla dialettica (nudismo, androginia,...): eppure queste soluzioni appaiono marginali, quasi esistessero per esserle...





    Saturday, January 26, 2013

    Ma rencontre avec Abbas Kiarostami.




    « Si seulement j’étais un pigeon…ce monde est trop petit pour aimer, trop petit ! ».
    Farrokhzad, Ce petit monde, p. 255

    Il n'y a mouvement que si la totalité n'est ni donnée ni donnable.
    (G. Deleuze, Cinéma 1)
     

     Au sein d'un atelier artistique, j'ai eu l'occasion de rencontrer Abbas Kiarostami, et surtout de passer avec lui une matinée.
    Le sujet de l'atelier était "l'hiver", et en particulier "janvier".
    Mais, en plus de ce sujet retenu, de cet axe commun décliné singulièrement et pluriellement par les étudiants, dans les recommandations (au sens étymologique de re- (intensif) et accommandare, donner en garde plutôt que « commander ») que Kiarostami donnait dans le calme de son persan, sur toutes s’est imposée à mes yeux cette recherche de la stabilité dans les plans: une stabilité laissant le libre dégagement d’un mouvement non-biaisé en amont par l'artiste. Une claire position non pas en faveur d’un style expressif à privilégier, mais une lutte contre la gratuité du geste artistique, contre une esthétique violente. « Rien n’est moins simple que d’être simple », se dit dans Copie Conforme

    Un jour, avec un petit groupe et grâce à un ami sculpteur, j’ai eu la chance unique de l'accompagner lors d’une promenade dans la forêt enneigée. 
    Avant qu’on arrive, j’avais une place étrange, une place marginale ou peut-être d’exception : dans la voiture, cette Voiture comme « boite à regard » (dit Nancy dans L'Evidence du film), voire dans le siège arrière, rarement assigné dans vos films, place impossible comme poste d’acteur, où la parole viendrait de derrière, sans égalité possible. La voiture est aussi le lieu de ce tournage imaginaire de l’enfant, à partir justement du siège arrière, dans le deuxième volet (Et la vie continue) de sa trilogie, dans ce film charnière du passage entre un cinéma fait par les enfants et les adultes dans sa cinématographie : c’est le lieu où ils communiquent et où il y a une relation et synchronique entre des non-égaux, et diachronique de passage des consignes, puisque la figure de l'enfant va dispaître.
    En revanche, à partir de l'arrière, j'ai pu voir son regard : j'a suivi la ligne du profil de Kiarostami à droite, à gauche – et devant, j'ai cherché dans son ferme regard le mouvement du feuillage. J'ai ensuite regardé dans l’écran de sa caméra (posée soigneusement sur le tableau de bord avec une écharpe comme socle improvisé, pour que les accélérations ne lui créent pas de faux mouvement), comme pour en saisir un secret. 

    Puis, une fois arrivés dans la foret, il m'a conduit en me prenant le pas. Et moi, le poursuivant ou poursuiveur, j'ai dû emboiter mes pas aux siens, et surtout éviter d’augmenter le pas pour le suivre (et puis, pour aller où sans son guide ?). 
    J'ai eu l'occasion de l'arrêter une fois, en regardant des feuilles mortes dont la branche envahissait plus que d'autre son chemin. J'avais remarqué comment ni l'automne ni l'hiver les avaient faites tomber, et qu'elles allaient sans doute attendre le printemps pour se détacher du lieu de leur mort. Kiarostami a hoché la tête et dit qu'elles attendent bien de voir les jeune feuilles pousser pour être sûres de leur laisser la place.


    Nourri de poésie persane et dans mes yeux le documentaire Roads of Kiarostami, vu quelques jours auparavant, j’ai alors marqué ce haïku (qui n'a pas son courage d'être en vers libre), en anglais, puisque c'est la langue par laquelle nous communiquions :

    Behind your distance
    An irretrievable path
    No hesitation.

    Au retour en ville, nous étions devant une voiture garée : une des celles dont les détails sont aujourd'hui exposés. Il filmait et photographait de la neige fondant sur les vitres d’une voiture, dont on apercevait mal l'habitacle. 
    Une dame s'arrêta pour me demander "que voulait cet étrange et mal habillé Monsieur qui prenait de la neige sur les voitures en photo, et pourquoi, et s'il avait des mauvaises intentions" (comme si elle voyait sa caméra filmant un plus-loin-du-champ malin). En la priant de ne pas le déranger, je lui ai dit qu'un hors-champ de la profondeur sur l'objet ne l'aurait pas intéressé, son hors champ est un hors champ de l'invisible, un hors champ du spectateur et non pas un hors-champ du monde filmé.

    Sappho

    Sappho
    "Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

    Sehnsucht

    Sehnsucht
    Berlinale 2006