Per ammazzare il tempo, procederei a ritroso nello scrivere di questo solstizio, che in qualche modo val la pena di essere raccontato; nel frattempo, rendendomi conto che ho molto sonno, lascio la finestra spalancata. Mentre una musica da dj set non meglio definita pervade fresca l'aria stantia del dentro, mi osservo in canottiera, bianca con sottilissime righe rosse e nere, pantoloncini da sport blu scuri, e ciabatte, anch'esse blu scure, modello da piscina. La casa è piuttosto sporca, faccio il minimo indispensabile. Eppure il mio corpo allo specchio è in pienissima forma. Mi metto in tre quarti sullo specchio intero, il quale, essendo leggermente poggiato sul suolo inclinato, che aumenta l'effetto chiaro-scuro sulle spalle e le braccia, e mi fa apparire in qualche modo migliore. Mi riaffaccio fuori e osservo giovani e giovanissimi che si divertono. Un fugace pensiero mi porta tra di loro, ma subito scompare, e poi quasi a rettificarsi si riconduce vano sullo specchio.
Ho appena finito di leggere "Il naso" di Gogol e non ho ancora voglia di cominciare "La prospettiva Nevskij", perché sono troppo poco incline al sorriso.
Poco prima, durante la cena ho fatto in tempo a vedere il bel gol di testa di Cristiano Ronaldo, nel quarto di finale Portogallo- Repubblica Ceca.
E ancora poco prima ho terminato di vedere, il sesto e ultimo episodio di una serie inglese fedele a Jane Austen's Pride and Prejudice, trasmesso su Arte. Ero molto vicino al commuovermi quando scoprii che Mister Darcy aveva pensato a tutto per il matrimonio tra Lydia e Mister Forster, a causa dell'amore che provava per la sorella di lei, Lizzy (Elizabeth): il suo nobil scopo era di far cessare al più presto le voci maligne sulla famiglia di lei al momento della fuga di Lydia con l'amante, anche a costo di perdere l'amata Elizabeth Bennet, che avrebbe potuto interpretare questo gesto in tutt'altra maniera (essendo Mister Forster un personaggio particolare che però la leggera Lydia amava a suo modo).
Poco prima ho parlato con il mio primo lettore del mio lavoro sul fondamento. I sentimenti sono sempre contrastanti su di esso. Innanzitutto esso, essendo il fantasma dell'appropriazione della teoria, è anche "poco seducente", anzi è il simbolo dell'invendibilità stessa di un concetto. Ma il compito fu più erculeo o più sisifeo? In ogni caso, quello che conta, sembra, è quello di essere più pedagogico e meno allusivo; e fare soprattutto ad ogni capitolo una ricapitolazione di quello che si è detto e pure di ciò che si dovrà dire. Non è molto interessante parlare di questo. Eppure la filosofia non dovrebbe mostrare degli argomenti, come fossero un cammino, persino ben tracciato, tuttavia non ancora percorso, né nella meta né in tale sinuosità, temibile appunto perché ci sfida - strappo alla stratificazione della trama del senso.
L'esperienza cruciale è stata forse mentre tornavo da tale primo lettore. Nel frangente dei minuti che mi separavano da casa. Sentivo, in bicicletta, la pioggia bagnarmi le ginocchia mentre provavo a chiarire, non riuscendoci, il sentimento avuto poco prima. Gli strascichi parevano consumarmi ad ogni pedalata, come se abbandonassi, nell'avanzare, delle parti dietro di me, come se si srotolasse il filo della serenità nel tornare a casa.
Ho avvertito la mancanza di parole, che era in realtà la mancanza esatta di senso. Tale assenza, riesco solo ora ad evocarla, ora che mi sento solo, staccato dalla festa del solstizio, come un onomastico qualunque.
Vi era come un'esposizione alle vita che necessitava di prendere il sopravvento, e che aveva poco bisogno di riflessione. Che bisognava aggrapparsi più alla società che ad una resistenza anomica coraggiosa. Soprattutto, questo mi è sembrato prodromo non tanto alla socievolezza che rimbomba dal teatro aperto che è la città durante festa della musica, ma, in questo movimento di uscita se non di strappo al frivolo, prodromo alla ricerca immediata di quella socialità impegnata che fu per me e così a lungo assente, irriducibilmente. L'afasia è forse stata un desiderio di normalizzazione...?
E cosi, prima di scrivere queste sparute righe: la navigazione nei ricchi e ordinati siti internet di aziende, o di progettistica per aziende, perché questo è il mondo a cui sono destinato. Mi turbarono molto. Il mio futuro è destinato a ruzzolare sulla patina. Tutto nelle aziende richiama il vendere, il fare-meglio facendolo sembrare ancora meglio. Io non sono capace di far la promozione dei miei argomenti filosofici, e ancor meno di fare sembrare un prodotto da non-promuovere promuovibile, falsamente necessario. Perché la filosofia non è necessaria per vivere, e qualunque filosofo ne è conscio. Le risorse imponenti delle aziende, la carucceria, hanno completamente annientato la mia psiche per molti angosciosi minuti. Senza che ci fosse nulla di strano in apparenza - ed anzi, c'è quasi una generosità verso il cliente: il layout è chiaro e stimolante, come un argomento dovrebbe esserlo. Ma la patina, gli spazi, cosi come i favori al lettore, sono densi e perfino mostruosi nel volere creare delle zone d'ordine organizzate; nel mettere in gioco così tante opportunità da cogliere, che il non coglierle sembrerebbe una sgarbatezza. Nel prendere per la mano il lettore, c'è un invito a prevaricarlo, una volontà non filosofica, perché non è un'esigenza del pensiero. Ma, soprattutto, in tutto c'è appunto il vendere e il comprare, l'accettare e il rifiutare, in un mondo che si mostra solido e che saprà comunque andrà avanti...