Sunday, September 19, 2010

La disoggettivazione della pubblicità


A volte, quando il vuoto che accompagna certi momenti della giornata si fa spazio, riesco a farmi assorbire dalle pubblicità che si susseguono in televisione. Una cede stanca il passo all'altra come una fila di alberi in un viale attraversato lentamente; e come una facciata barocca, tentano di catturarti nel cesellame di stravaganze, capace di incuriosirti quel poco per non pensare.
Qualcosa ritiene la mia attenzione, mentre abbasso gli occhi e me ne distolgo.
Potrebbe darsi una funzione derealizzante, rispetto al prodotto, della pubblicità. Divento attento, provo a seguirle. Anche in momenti di non vuoto, sarebbe un fenomeno singolare, in quanto, nella pubblicità, dovrebbe essere insita una logica del merchandising: la sponsorizzazione del prodotto attraverso dell'altro (dal prodotto). Qualora una pubblicità possa considerarsi “riuscita”, accadrebbe che l'immagine che veicola il prodotto prenderebbe il posto del prodotto nell'attenzione dell'astante. Avremmo così, al posto dell'immagine del prodotto, un'immagine del messaggio, così potente da farci scordare il prodotto stesso, liberando la pubblicità dalla logica contrattuale della “promozione del prodotto”, e facendola librare verso l'arte stessa. Portato alle sue estreme conseguenze e volendo rimanere al livello puramente ontologico delle sue possibilità, la pubblicità potrebbe essere così un mezzo eccellente, quasi paradigmatico, per svincolare il mondo intero dal giogo della contrattualità e della commercialità, che non è presente solo nel lavoro di ideazione, ma in molte pratiche umane. Forse in tutte, in realtà, se la logica che ci guida è il dare per ottenere, oppure anche il semplice conformarsi a ciò che si crede, etichettando, sotto l'egida del valore, una sorta di buona moralità. Tutto ciò risponde a criteri analoghi a quelli del commercio. La creazione pubblicitaria mostrerebbe dunque che non solo è possibile sfruttare questo mondo e l'economia stessa a suo stesso svantaggio, ma che non è possibile

A questo punto mi chiedo, se, dopo questa deralizzazione o forse disoggettivazione (visto che l'oggetto da vendere, foss'anche un quadro, merita comunque il nome di puro "oggetto” al momento e per il fatto stesso di essere venduto o scambiato, obbedendo alla logica del tornaconto), se la pubblicità riesca a introdurre una polisemia in qualche modo artistica, o divenga semplicemente una disoggettivazione stessa anche del modo di funzionare di essa come segno. Se la vuotezza di prodotto divenga pura vuotezza (e questo spiegherebbe perché riesca ad abbinarsi così bene ai momenti di vuoto, durante i pasti a casa da solo), oppure possa rinviare a qualcosa di positivo.

Disoggettivando l'oggetto commerciale, non per questo riesce a fare altro che coprire l'attenzione attraverso la carineria dell'oggetto stesso. Tale “carineria”, tipica delle immagini veicolate da una persona che incarna lo sponsor, oppure delle pubblicità più stucchevoli, è ciò che è richiesto, in effetti, per afferrare l'attenzione in sé e che permette poi di scordarsi dell'oggetto.

A meno che non si sia capace, come nell'immagine di Toulouse-Lautrec qui mostrata, di poter mettere in risalto un “che” dell'oggetto contrattuale, per rilasciarlo in seguito in un modo artisticizzato, ovvero facendolo notare diversamente. Ma per far ciò necessita di ricreare un rapporto con l'oggetto, ma negativo al fine di metterlo diversamente in valore. La disoggettivazione è sempre un vuoto, e nella pubblicità diventa un vuoto segnico senza speranze.

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006