Thursday, May 29, 2008

In morte

"La nostra immaginazione dell'impossibile non è forse esclusiva; ho visto dei gatti che guardavano la luna, e non so se non la volevano". F. Pessoa, Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares (O livro do desassossego), trad. A. Tabucchi, Milano: Feltrinelli, p. 232


Poco prima Pessoa scrive: "la nostra intelligenza astratta serve unicamente ad architettare dei sistemi, o idee che sono dei quasi sistemi di ciò che negli animali è stare al sole".  Non solo Pessoa inibisce ogni differenza di specie, ma persino ricava un'equivalenza là dove gli animali si curano meno persino di loro stessi, nella forma più leggera di ozio (sebbene attivino un risparmio energetico importante, e dunque sia una "tecnica" di sopravvivenza essenziale e dunque valida più di qualsivoglia teoria).
Seguendo Derrida, pensiamo dapprima però un animale con cui possiamo allacciare relazioni, non un lombrico ad esempio, con il quale si è più distanti per dimensioni fisiche, o meglio per una quasi impossibilità ad entrare in un contatto sensibile, in una zona di confronto. Logon de monon ekei anthropos ton zoon. "L'uomo, solo tra gli animali, ha la favella" (Aristotele, Politica, A1). Oggi però non è più sufficiente pensare il grido di dolore di un animale e differirlo dall'umano significare il dolore, dal mio comunicare "ciò che è doloroso" rispetto alla sensazione di dolore. E questo a causa del rapporto con l'animale stesso, oggi diventato esso stesso contemplativo (a differenza dell'uso fatto dall'animale nel passato) e perciò problematico; e il lutto dell'animale resta il problema del problematico. Il rapporto con l'animale è esso stesso non-linguistico, o più precisamente, non segnico (l'espressione appartiene anche agli animali, ma solo quella immediata, non il linguaggio), ma parte da uno che possiede il linguaggio e ha un rapporto linguistico al mondo di maniera necessaria. Dunque, benché riconosca più simile a me una persona con un linguaggio, fino magari a uno con forme di linguaggio più intriganti, che mi ostenti cose che non ancora conosco, o più abituali, che mi riattivino una routine positiva, l'originarietà del messaggio sta nella chiamata, prima che nel significato. L'animale mi chiama, si rivolge a me. Da qui il mio contatto con lui, da ciò l'origine della comunicazione. E anche dell'affetto, del pathos verso un "qualcuno" di trascendente, che noi non siamo, ma che agisce in noi come  (e forse, ma una dimostrazione sempre sfuggirà, anche l'animale, in virtù di un tale meccanismo, proverebbe a corrispondere a una comunicazione verso di noi, sebbene orientata istintivamente a certi contesti). Per le cose siamo intimamente incapaci di provare affetto, visto che esse sono inerti (non ci chiamano, non s rivolgono a noi, kein Anspruch). Quando un vestito si strappa o un computer si rompe, possono essere ricomprati senza perdita.
Quando un ente trascendente non appare più, vi è la scomparsa. Quando la scomparsa è irrimediabile, l'affetto è lutto, ovvero porta l'assenza di una trascendenza alla quale l'affetto si era legato come non provocato da se stesso, come occasionato da esso senza interdipendenza. L'antropologia ci mostra quanto l'Al di là abbia contribuito a rendere, nei popoli primitivi come tutt'oggi, il presente meno luttuoso. Il lutto infatti, che ci distingue dagli animali in quanto dolore raccolto in una forma di esistenza (temporanea o infinita), non è solo rivolto agli uomini. Spesso si ha la tendenza a sminuire la sorte del pet dicendo "era solo un animale, ci sono uomini che muoiono". Purtroppo chi dice così, non sa che il dolore, e il lutto ancor più, è affare privato, e entrarvici, e pretendere giudicarlo, è improprio se non violento. Un animale può valere più di un uomo, a rigore del dolore e del lutto, sebbene tale frase sia da bandire in ogni Costituzione. E il fatto che l'animale non abbia un vero "lutto" verso di noi, dimostra che ciò riguarda il tratto affettivo dell'uomo (o almeno questo ci è dato presumere). Un elefante che trascina le ossa di un suo simile deceduto, non è in lutto, ma cerca la presenza. La morte non è "elaborata" (e si dice elaborare un lutto in italiano: più che un "calcolo", è come se fosse un lavoro).
Misura dell'affetto, del legame (partiamo dal lato umano, come non potremmo?) mi sembra sia la maggiore presenza in me, e la mia voglia che a questa presenza corrisponda una sua realtà esterna. La cosa terribile della morte è la scomparsa, che in italiano si dice a giusto titolo "dalla faccia della terra". Ciò che il defunto, ogni defunto mi diede non entra paradossalmente in conto, se non quando non c'è più; egli è solo nella misura in cui mi si dà per me (la ridondanza è necessaria). In cui era a me, appariva a me. Faceva qualcosa per me (anche se di me non gliene caleva). Il distinguo tra specie, umana e animale, è mutato nel conflitto dell'io, quello che ho da sempe con me stesso. Che ogni uomo ha con sé. ben più originario. Quindi la domanda è: ma chi sono io per dirlo, per dire che il gatto, da cui io sembro differire, era (anche) per me? Nel lutto, e nel lutto dell'animale più che mai, risplende questo egoismo. Egoismo mai ipocrita, perché è senza veli. L'egoismo è nudo come un verme, e già si sente colpevole. Già il gatto è su un piedistallo. Il lutto, come l'affetto, è un evento libero assolutamente egoista, e che toglie anche all'egoismo ogni connotazione morale e psicologica. Il lutto per un animale, che decede, non muore, come diceva Heidegger, è ancora più spoglio degli obblighi sociali. E se ne guadagna in dolore. Il gatto può essere rimpiazzato, un uomo no. Questo può sia consolare, sia fare gridare dal dolore fuori da ogni significato. Ma la formula è semplice: un uomo ha il suo lascito, il gatto coincide col suo corpo. Dal momento che decede, tutto di lui scompare. Il nostro ricordo sarà sempre un ricordo a partire dalla lingua e alla nostra struttura mentale. Del gatto, non c'è proprio più traccia nel mondo, e quel poco che resta è difforme a lui. Il lutto verso la scomparsa di un animale è assoluto, perché è assenza anche in me luttuoso, con il pensiero, beffardo e tragico, che l'animale non abbia mai voluto fare qualcosa per me. Ritrovo allora il mio gatto con tutto il suo spirito libero, in una riflessione in cui apparentemente egli (egli) non entra in conto che come esempio, e invece l'ha da sempre fomentata. Persino "animale" è peggiore di un'astrazione, di fronte al mio gatto. In realtà, è solo lui che fu per me, e di lui porto lutto. Ma non per questo non mi dà da pensare. Il nostro intelletto mira l'universale, e nel dolore la sua necessità si acutizza fino alla scrittura stessa. L'animale ("il mio gatto"), mi ha insegnato a dubitare che questo possa essere una miglioria. Ed eccomi infatti di fronte a un lutto in qualche modo totalizzante, proprio anche del mio pensiero.

[Da qui l'elaborazione del lutto. Lo sforzo maggiore: concepire questo blog come il mio gatto ritrovato. Le parole si mischiano a un senso di ridicolo. A uno scacco imminente. Parole, immagine, significati, costellazione di temi, diario intimo. Eppure c'è in tutto questo una sua impronta, un'orma di zampa. Che si poggia sulla tastiera. Come quando saltava sulla scrivania e si raggomitolarsi su qualsiasi oggetto - laptop libri fogli - e risvegliare un'attenzione, particolare, oziosa, bighellona, quasi arrogante, inafferrabile]

Sappho

Sappho
"Morremo. Il velo indegno a terra sparto,/ rifuggirá l’ignudo animo a Dite, / e il crudo fallo emenderá del cieco / dispensator de’ casi. E tu, cui lungo / amore indarno, e lunga fede, / e vano d’implacato desio furor mi strinse,/ vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal" (G. Leopardi, Ultimo Canto di Saffo)

Sehnsucht

Sehnsucht
Berlinale 2006